Il diritto all’istruzione vale per tutti
di Gordon Brown
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Fawaz è stato sfollato con la sua famiglia in un campo profughi di fortuna, a ridosso del confine con la Siria: «Non ci sono scuole. Non c’è istruzione. I miei figli non hanno giocattoli. Devono giocare con il fango… Stavamo meglio in Siria» mi spiega.
Muna, la madre racconta inorridita di incontri ravvicinati con serpenti, ratti e zanzare. «Siamo scappati dalla Siria per via della guerra» spiega. «Abbiamo perso tutto, ma la cosa che mi fa più male è che i miei figli abbiano perso il loro futuro.»
La storia di Fawaz e Muna è la storia di tanti. Il dolore è lo stesso di ogni famiglia di profughi che ha dovuto lasciare la propria casa in Siria, famiglie che hanno dovuto solcare mari e deserti in cerca di un’opportunità per i loro figli sotto forma di istruzione.
Oggi sono circa un milione i bambini siriani che non vanno a scuola e la maggior parte di quelli che ci vanno, abbandoneranno gli studi prima di cominciare la scuola secondaria. Nel giro di un ciclo elementare, la Siria ha registrato un’inversione di tendenza di proporzioni storiche, perdendo una generazione.
Su un altro continente e cinquemila chilometri più a sud, la situazione è altrettanto disperata.
Fuggiti da una campagna di terrore, più di 950mila persone (presto supereranno il milione) hanno attraversato il confine del Sud Sudan per rifugiarsi in Nord Uganda. Per questi profughi, una delle aree più povere di uno dei Paesi più poveri al mondo è diventata un rifugio.
Secondo l’ultimo rapporto di Save the Children, per quasi un anno, dal Sud Sudan sarebbe fuggito un bambino al minuto. Sono bambini che hanno assistito a violenze inaudite, hanno bisogno di protezione, di cure e di istruzione.
Il governo ugandese ha dato prova di una generosità straordinaria.
Diversamente dai Paesi molto più ricchi, l’Uganda ha offerto accoglienza, ha messo a loro disposizione terra, semi e attrezzi, dando loro la possibilità di ricominciare.
Il Paese ha aperto le sue scuole e le sue strutture sanitarie già sovraffollate e ha mantenuto la sua promessa di garantire un’assistenza più efficace ai profughi, come previsto da una dichiarazione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite del 2016. Questo è uno dei rari esempi in cui la retorica può tradursi in realtà.
Ma altri seguiranno l’esempio? È necessario.
In un mondo alle prese con la più grande emergenza profughi dalla Seconda guerra mondiale, il problema non è solo ugandese ma mondiale, e i problemi mondiali richiedono soluzioni mondiali. Attualmente, pur essendo aumentati di un punto percentuale nel corso dell’ultimo anno, i finanziamenti all’istruzione in caso di crisi umanitaria sono ancora gravemente insufficienti. Secondo l’Unesco, attualmente solo il 2,7% degli aiuti umanitari globali è destinato all’istruzione.
Questo deve cambiare. Pensate che l’86% dei profughi di tutto il mondo viene accolto da Paesi in via di sviluppo già in difficoltà per garantire il diritto allo studio ai propri giovani. L’International Commission on Financing Global Education Opportunity – che ho il privilegio di presiedere – ha lanciato un appello urgente affinché gli investimenti per l’istruzione raggiungano il 4-6% degli aiuti umanitari totali. E in caso di emergenze e di crisi, bisognerebbe stanziare ogni anno altri 9 miliardi di dollari per l’istruzione. I finanziamenti ci sono, ma dobbiamo muoverci.
Quei finanziamenti permetterebbero a Paesi come l’Uganda e il Ciad (che stanno accogliendo più di 800mila profughi fuggiti alla violenza della Nigeria del Nord e della Libia, 300mila dei quali in età scolare) di fornire un’istruzione adeguata ai bambini profughi. E questo arginerebbe la marea di profughi migranti in cerca di opportunità perché dove c’è istruzione ci sono stabilità e speranza.
E poi Education Cannot Wait ha istituito un fondo per concretizzare le innovative soluzioni proposte al Vertice umanitario mondiale (World Humanitarian Summit). Sotto la guida di Yasmine Sherif, il fondo collabora con altre realtà locali che si occupano di emergenze umanitarie per colmare il divario a livello umanitario e di sviluppo, e per elaborare soluzioni in tempo reale.
Nel frattempo, la Global Partnership for Education sta incoraggiando i Paesi a includere i profughi nella pianificazione a lungo termine. La proposta avanzata di un International Finance Facility for Education potrebbe essere una panacea finanziaria per molti Paesi.
In un mondo segnato da profonde divisioni, abbiamo l’opportunità di intraprendere un cammino diverso. Investire nell’istruzione porta un ritorno a lungo termine ed è ormai dimostrato che un’istruzione di qualità rappresenti una sicurezza per i bambini. E poi l’istruzione può ridurre i matrimoni delle bambine, il lavoro minorile, lo sfruttamento e i lavori pericolosi, le gravidanze delle adolescenti, rafforzare la sicurezza e l’autostima degli scolari e offrire loro maggiori prospettive lavorative.
I dati mostrano che la mancanza di istruzione per i profughi diventa via via più pronunciata proporzionalmente all’età. Se nel mondo il 91% dei bambini raggiunge un’istruzione elementare, per i bambini profughi la percentuale scende al 51 per cento. E per gli adolescenti ancora di più. Quasi l’84% degli adolescenti nel mondo ha un’istruzione secondaria, contro un mero 22% degli adolescenti profughi. E se il 34% dei giovani va all’università, per i profughi la percentuale scende all’1 per cento.
Statistiche come queste rivelano una realtà preoccupante: il diritto allo studio per tutti – e i diritti dell’infanzia – sono la lotta dei diritti civili del nostro tempo.
E anche quando la guerra finisce e il Paese intraprende il processo di ricostruzione, non si può dire di aver raggiunto una vera pace fino a quando i bambini non sono tornati sui banchi di scuola, il posto che spetta loro di diritto.
Un bambino che non può andare a scuola vuole dire non mantenere una delle promesse e dei diritti più importanti, quello di garantire a tutti un’istruzione.
(Traduzione di Francesca Novajra)
© Project Syndicate 2017
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