Il diritto si misura con la potenza della tecnica
di Natalino Irti
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Sul principio degli anni Trenta del secolo scorso, un filosofo tedesco, Ernst Cassirer, narrava che «fra gli Everi del Sud del Togo … il martello del fabbro ha il valore d’una potente divinità, alla quale si rivolgono preghiere e vengono fatti sacrifici». Né caduta è oggi la consuetudine di inorgoglirsi di “miracoli della tecnica” o di inorridire dinanzi a “catastrofi della tecnica”. La tecnica, fra stregoneria e magia, viene tenuta come qualcosa di diverso dall’umano, e addirittura di ostile e contrastante alla cultura delle civiltà storiche. Che sarebbero esclusivo cammino di arti e poesia, sensibilità letteraria e musicale, opere della politica e del sapere umanistico
Fu dualismo, da cui sorse l’antitesi tra Kultur e Zivilization, ancora viva e aspra nelle Considerazioni di un politico (1918), dove Thomas Mann contrappone l’umanesimo tedesco alla pavida fede nel progresso tecnico e nella fatua felicità degli uomini. Questa antitesi si indebolì ed esaurì (ma ne resta traccia nel sentire comune e in taluni ritardatari del pensiero) quando fu schiarita la connessione profonda tra sapere scientifico, applicazione esecutiva, lavoro umano. Sicché gli strumenti tecnici, tornando nel nostro mondo e svelandosi come risultati di leonardesca “sperienzia”, esibirono la loro assoluta umanità.
Non si trattava più di meraviglia dinanzi a miracoli religiosi o riti magici, ma, per dirla con Camus, di un «affare tra gli uomini»: uomini che indagano le regolarità naturali, progettano beni economici e non economici, e dispiegano il lavoro nella pluralità delle loro individuali competenze. Ridotto a nuda esperienza, spoglio di fedi e ingenue credulità, ormai l’uomo stava di fronte a sé stesso, solo con il proprio “saper fare”.
Così la tecnica si ergeva insieme dentro e contro di lui, come una insaziata “volontà di potenza”, mai soddisfatta dei risultati, tutta tesa a conservarsi e incrementarsi. Negli abissi del pensiero filosofico, quale si svolge da Nietzsche ad Heidegger fino al nostro Severino, la tecnica esprime una capacità immane di crescere e raggiungere indefiniti scopi. La parola riassume e spiega le molteplici tecniche, proprie di particolari rami scientifici o di apparati produttivi: esse sono soltanto profili e aspetti di un’immane potenza.
L’uomo si avvede che lo strumento tecnico non è un qualsiasi attrezzo da usare e poi mettere da canto, ma è parte del nostro destino e dà forma alla nostra vita (come è nei “messaggini”, i quali dettano stile espressivo, e definiscono la dotazione linguistica del singolo utente). A problemi così gravi e ardui ci conduce ora la lettura di pagine penetranti ed inquiete, che il compianto Beniamino Caravita ha dedicato alla intelligenza artificiale. Dove, pur avvertito il sinuoso fascino della macchina che raccoglie ed elabora dati, e sa comporli e coordinarli, e compiere scelte e prendere decisioni, si fanno strada gli interrogativi di una schietta sensibilità giuridica, e preme l’angoscia di un domani che ponga a rischio le garanzie costituzionali della persona umana. Che ne sarà delle libertà e della stessa paternità dei nostri testi?
Si trovano così, l’una dinanzi all’altra, la potenza normativa del diritto e la potenza della tecnica, e la prima esprime la volontà di orientare e vigilare la seconda. Le nude parole di costituzioni e leggi – che siano dello Stato o di altro ente sovrano – si levano avverso l’immane e inesauribile potenza della tecnica. E mentre esse si rivolgono, com’è nella lor propria natura e destinazione, ad altri uomini, che possono obbedirle o violarle, la tecnica percorre il suo cammino e progredisce verso un dove non stabilito dagli uomini né dagli uomini saputo. «Ma che cosa sono mai le leggi – si chiedeva Ernst Jünger, sismografo fra i più sottili del nostro tempo – quando una nuova formazione proietta la sua ombra?». Qui si tace lo Spettatore, quasi smarrito per l’impotenza del diritto e per l’inesorabile cerchio, in cui la tecnica ci chiama e avvolge.
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