Il divino Raffaello capovolto
La rassegna alle Scuderie del Quirinale affronta la parabola dell’artista a ritroso, partendo dalla morte nel 1520
di Francesco P. De Teodoro
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Ogni storico dell’arte sa che per guardare con occhio vergine un dipinto fin troppo noto conviene metterlo a testa in giù. Questo stratagemma percettivo è talmente vero che Georg Baselitz l’ha capito subito: i suoi dipinti vanno appesi all’ingiù.
Ecco spiegato l’arcano della data “sbagliata” che incuriosisce immediatamente il visitatore che si accinge a varcare la soglia delle Scuderie del Quirinale per visitare la grande mostra Raffaello 1520-1483, che sarà inaugurata martedì prossimo dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, rimanendo significativamente aperta fino al 2 giugno, festa che unisce tutti gli italiani.
Per gustare meglio l’Urbinate l’abbiamo guardato come da una macchina del tempo, un film che si riavvolge al ritmo di lancette di un orologio sinistrorso. Una data rovescia e retrograda per un percorso espositivo che inizia dalla fine e finisce al principio dell’avventura romana dell’artista, pur testimoniandone le radici che affondano nella sua giovinezza fiorentina e, prima ancora, nel preludio marchigiano-umbro. Un Raffaello à rebours.
Ille hic est Raphael, timuit qui sospite vinci, rerum magna parens et moriente mori. Questi è quel Raffaello - celebra il distico elegiaco di Bembo o di Tebaldeo - da cui, quand’era vivo, la grande madre Natura temette d’esser vinta e quando morì temette di morire con lui. Comincia dall’epitaffio in metrica che si legge sulla tomba del “divin pittore” al Pantheon, la mostra alle Scuderie. Ci accoglie la riproduzione dell’edicola della Madonna del Sasso, opera realizzata da Lorenzetto seguendo la tipologia della Venere di Capua. Sotto la statua il sepolcro dove Raffaello, scomparso il 6 aprile 1520, giorno del suo trentasettesimo compleanno, venne deposto essendo stato accompagnato da “cento torce” nel tempio adrianeo dedicato a tutti gli dei (“un dio mortale” Giorgio Vasari avrebbe definito l’artista trent’anni dopo la morte). Due fogli autografi di Raffaello realizzati a distanza di circa otto anni l’uno dall’altro testimoniano del forte interesse dell’Urbinate nei confronti del Pantheon. Li affiancano disegni per la Trasfigurazione, il dipinto al quale l’artista ancora attendeva quando morì e l’Autoritratto con un amico (1518-1519), che ci mostra il volto un po’ stanco dell’ultimo Raffaello rivelando, allo stesso tempo, un’invenzione compositiva attrattiva, un laccio di affetti e una catena fisica che catturano subito il visitatore.
Marcantonio Michiel, patrizio veneziano, ben introdotto nella curia romana, scrive nei suoi diari tra il 6 e il 7 aprile 1520 che «dolse la morte sua precipue alli litterati». Furono i letterati, gli umanisti e gli antiquarii che si angustiarono più degli altri per la morte di Raffaello perché quel tragico evento aveva interrotto il grandioso progetto di raffigurare Roma antica, incarico che l’Urbinate aveva ricevuto da papa Leone X. Ecco, allora, che la seconda sala si raccoglie attorno a un documento cruciale anche per il moderno concetto di tutela, la cosiddetta Lettera a Leone X, una sorta di primo motore immobile (Aristotele mi perdoni...). Nella mostra su Raffaello architetto del 1983 non era che uno fra i tanti documenti esposti: un segno dei tempi vederlo oggi spiccare. Gli fanno corona la traduzione di Vitruvio operata da Fabio Calvo ravennate per lo stesso Raffaello, rilievi dei Fori Imperiali di Antonio da Sangallo il Giovane, adesso, e per la prima volta, collegati (e che prendono vita in 3D), libri di disegni dall’antico (Francesco di Giorgio, Peruzzi, l’Anonimo di Fossombrone, l’Anonimo Escurialense), epigrafi (nel 1515 Raffaello è nominato prefectus marmorum et lapidum omnium con il compito di salvare dalla distruzione quelle epigrafi che si distinguevano per l’eleganza della lingua latina, ma destinate a essere spezzate e bruciate nelle calcare assieme a ogni elemento marmoreo utile per diventare calce e materiale da costruzione - i Romani facevano così da un millennio! -, dunque: nulla a che vedere con la leggenda di Raffaello soprintendente alle antichità, funzione che non ebbe mai).
All’ombra di una veduta ideale di rovine - Tempus edax rerum - di Herman Posthumus, la sezione è governata da due capolavori eccelsi, quello appena restaurato e fulgente di rossi del triplice ritratto di Leone X con i cugini cardinali Giulio de’ Medici e Luigi de’ Rossi (1518) e quello di Baldassarre Castiglione (circa 1513) dai penetranti occhi azzurri che si accendono sotto la berretta scura (lo “scuffiotto”), avvolto in calde vesti invernali, affettuosamente e vividamente ritratto dall’amico Raffaello (a Castiglione si deve la stesura della Lettera a Leone X).
Il «progetto di rifondazione antiquaria dell’arte moderna» si esplicita nelle sale successive. Nella densa quarta sala si accompagnano modelli antichi con la cultura antiquaria e il collezionismo. Dall’Antinoo Farnese, modello per il Giona della Cappella Chigi (testimoniato in mostra da un disegno di Raffaello a Windsor), al Torso Sassi, dalla Tavola iliaca Tomassetti fonte, tra le altre, per la celebre incisione Quos ego di Marcantonio Raimondi – densa di rinvii alla scultura antica e all’architettura - al disegno raffigurante l’Apollo del Belvedere. Ma il pezzo forse più strepitoso della sala è il disegno/rilievo a pietra rossa quotato a penna (1514-1515), già a Chastsworth e ora a Washington, di uno dei cavalli dell’antico gruppo dei Dioscuri del Quirinale, l’Opus Praxitelis, sul cui originale ogni visitatore avrà avuto modo di posare e attardare lo sguardo prima di entrare in mostra.
Il confronto con l’antico prosegue nelle stanze successive che indagano il Raffaello negli anni del pontificato di Leone X, quando la pittura dell’artista diventa sontuosa e l’attività sua, e della sua bottega piena di talenti, si fa turbinosa per quantità, varietà e importanza degli incarichi ricevuti. Ci accoglie l’Estasi di Santa Cecilia (commissionata nel 1514-1515 e, comunque, prima della “Guerra di Urbino” del 1516), dorata presenza, iconograficamente frutto di una ricerca antiquariale, con la veste in cui si intrecciano l’araldica medicea del broncone fiammante, omaggio al papa regnante, e quella del cingolo francescano, memoria di papa Giulio II che dalle fila dei Francescani proveniva. Gli strumenti musicali di fronte alla santa martire sembrano vestigia antiche. Fanno corona alla Santa Cecilia il San Giovannino degli Uffizi, con le sue probabili fonti che vanno dal Laocoonte vaticano - in mostra un bronzetto di Ludovico Lombardi (1545) - al torso tipo Westmacott; la Madonna del Divino amore, la Madonna della rosa, la Visitazione di Madrid (già a L’Aquila) con la sua probabile fonte antica, la Dextrarum iunctio che ha suggerito l’abbraccio dolce tra la Vergine e Sant’Elisabetta; il Ritratto del Cardinal Bibiena, l’impressionante cartone per la Lapidazione di Santo Stefano (Giulio Romano o, com’è stato recentemente suggerito, Raffaello e Giulio Romano?) per la chiesa di San Lorenzo a Genova. E ancora: i disegni per la Sala di Costantino (in catalogo un saggio rende edotti degli ultimi restauri e delle più recenti scoperte), per la Villa Farnesina, per la decorazione della seconda Loggia Vaticana (o “Loggia di Raffaello”), appena conclusa nel giugno 1519 quando la vide Baldassarre Castiglione che le descrisse come «bella al possibile, e forsi più che cosa che si vegga hoggi dì de’ moderni» in una lettera a Isabella d’Este.
E ancora capolavori e magnificenza, verso l’ultima sala del primo piano: i disegni per i cartoni degli arazzi Vaticani con storie di San Pietro e di San Paolo, l’arazzo con Il sacrificio di Listra (1517-1519), uno dei più architettonici della serie, che arriva fresco fresco dalla settimana di ostensione nella Cappella Sistina (17-23 febbraio), luogo per il quale era stato pensato. L’arazzo (482x581 cm) è seguito dal suo corteggio antico, costituito dall’Ara funeraria di Lucio Volusio Urbano e dal Rilievo con scena di sacrificio degli Uffizi, e moderno, rappresentato dal facsimile del corrispettivo cartone londinese, straordinario perché «più vero del vero» (mi affido a un topos della prosa vasariana): potrei quasi giurarlo, avendo visto l’originale da molto vicino, la scorsa estate, salendo sulle impalcature approntate da Factum Foundation che ha “rilevato” tutti i cartoni della Raffaello Room del V&A. E dunque il grande arazzo madrileno con Dio padre con i simboli degli evangelisti, eseguito nel 1521 circa per il baldacchino del letto “dei paramenti” di Leone X su disegno di Tommaso Vincidor, traduzione sontuosa in lana, seta e fili d’oro (426x347 cm) della tavoletta di Raffaello – di cui, però, non regge il confronto – con la Visione di Ezechiele della Galleria Palatina di Palazzo Pitti (40,7x29,5 cm) che lo affianca.
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