Interventi

Il divorzio tra Tesoro e Bankitalia che cambiò la politica monetaria

di Davide Colombo e Carlo Marroni

(Imagoeconomica

5' di lettura

«Caro Governatore, ho da tempo maturato l’opinione che molti problemi di gestione della politica monetaria siano resi più acuti da un’insufficiente autonomia della condotta della Banca d’Italia...». Un motociclista il 12 febbraio 1981 percorse il breve tratto da via Venti Settembre a via Nazionale e consegnò a mano una lettera battuta a macchina, che avrebbe segnato un passaggio decisivo nella storia d’Italia. Il 6 marzo dello stesso anno parte un’altra lettera, percorso inverso: «Caro Ministro, rispondo alla Sua del 12 febbraio, le cui linee di ragionamento mi trovano sostanzialmente d’accordo...». Quaranta anni fa, in questi giorni. Un atto di governo ricordato nei testi di storia economica e di saggistica politica – ma anche criticato e ancora dibattuto – conosciuto come il “divorzio”, consensuale, tra Tesoro e Banca d’Italia.

I protagonisti

Protagonisti due tra i migliori prodotti della Repubblica, Beniamino Andreatta e Carlo Azeglio Ciampi. Scriveva esattamente dieci anni fa l’allora governatore Mario Draghi ricordando di trenta anni in un incontro all’Arel – fondato da Andreatta e poi nel tempo guidato da uno dei suoi allievi più di talento, Enrico Letta – che con quell’atto «la politica monetaria in Italia cambia corso». Ironia della storia: un governatore che ricordava le azioni di un ex governatore poi diventato premier, carica che dieci anni esatti dopo lui si appresta a ricoprire.

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Come si arrivò a quella decisione? Il contesto era drammatico. Era in atto un forte cambiamento nell’economia internazionale, con un’inflazione in crescita dovuta al secondo shock petrolifero, che porta a un rapido aumento dei tassi.

Il contesto economico

In Italia, l’inflazione supera il 20% nel 1980, amplificata dall’accordo del 1975 dal meccanismo di indicizzazione dei salari ai prezzi, i conti pubblici sono sotto pressione con un fabbisogno del settore statale raggiunge l’11% del Pil. E la Banca d’Italia? Tutti ricordano che allora il concetto di indipendenza era sfumato, in quel tempo aveva in definitiva scarsa autonomia nel controllo della base monetaria e nella fissazione dei tassi di interesse a breve termine. Non solo: la riforma del mercato dei BoT nel 1975 aveva impegnato Via Nazionale ad acquistare alle aste tutti i titoli non collocati presso il pubblico, finanziando quindi gli ampi disavanzi del Tesoro con emissione di base monetaria. Inoltre il Tesoro poteva attingere a un conto corrente presso la Banca per il 14% delle spese iscritte in bilancio, oltre a poter modificare il tasso di sconto, pur su proposta del governatore (questo sarà modificato proprio con Ciampi premier). Lo Sme era partito, ma già si sentiva il peso del “vincolo esterno”, gioia e dolore della politica interna. Un processo che portò al celebre passaggio delle considerazioni finali del 1981, quando Ciampi elencò i tre princìpi-chiave: indipendenza della banca centrale, spesa legata ai vincoli di bilancio e dinamica salariale coerente con la stabilità dei prezzi. Oggi questi concetti sono acquisiti – salvo che per la spesa – ma allora non era così.

Andreatta coltivava questo disegno già da anni, e quando nel 1980 diventa ministro decide di agire, pur in un contesto politico molto complesso, e sempre con l’idea della svalutazione competitiva sullo sfondo. La risposta di Ciampi è netta: «Occorrerebbe dunque che il Tesoro finanziasse l’intero ammontare delle spese non coperte da entrate fiscali mediante emissioni di titoli in pubblica sottoscrizione e che le operazioni in titoli di Stato della Banca d’Italia, da effettuare soltanto in contropartita del mercato, rispondessero unicamente a obiettivi di politica monetaria. L’interruzione dell’automatismo degli acquisti della banca centrale alle aste dei BoT è un primo passo, di notevole importanza, per la realizzazione di un obiettivo di crescita della base monetaria complessiva, indipendente dal disavanzo». È ora di agire.

Senza passare per il celebre Cicr – Comitato interministeriale credito e risparmio – un tempo onnipotente stanza di compensazione del potere politico sulle banche (specie per la Dc e poi anche Psi e qualche briciola per il resto del pentapartito), e da tempo di fatto scomparso dal panorama. Basta lo scambio delle lettere, visto che tutto è nei poteri del ministro, fu concluso negli uffici legali (lo stesso professore la chiamò «congiura aperta»).

Processo della riforma e scontri

La riforma parte nel luglio 1981, ha un processo graduale, e provoca subito degli effetti, come ne 1982 quando il Tesoro deve farsi approvare dal Parlamento un’anticipazione straordinaria.

Ci sono anche degli effetti politici, che i cronisti dell’epoca ricordano bene come “la rissa delle comari”, intendendo uno duro scontro politico tra Andreatta e il ministro delle Finanze socialista Rino Formica, i due pivot del secondo governo presieduto da Giovanni Spadolini. L’esponente del Psi (ma non solo lui) contestava che una decisione di questa portata non fosse passata per un voto parlamentare, e che aveva portato a un aumento immediato del fabbisogno. Da qui seguirono scambi molto accesi – ma sempre di livello altissimo e sui contenuti, specie se letti alla luce dell’andazzo dei nostri giorni – fino a quando «Il Popolo», quotidiano della Dc, definì Formica «un commercialista di Bari esperto in fallimenti e in bancarotta...» . E questi replicò da par suo: «Se un professore che ha studiato a Cambridge e si è specializzato in India perde le staffe e usa un linguaggio da ballatoio vuol dire che abbiamo una comare come Lord dello Scacchiere». Risultato furono le dimissioni del governo Spadolini e la nascita del Fanfani V, senza i due ministri, e che vide l’esordio di Giovanni Goria (di cui il giovane Draghi sarà consigliere, ndr) e Francesco Forte, entrambi stelle in crescita nei rispettivi partiti.

Sul piano dei valori macro, i tassi reali tornano stabili e positivi, anche i timori non svaniscono, sia della politica che del mondo dell’economia. Ma la riforma era strutturale e aveva bisogno di tempo: tra il 1980 e il 1987 l’inflazione cade del 5% (dal 21% e oltre), il Pil risale, il credito si modernizza, per non parlare della Borsa che sale vertiginosamente. Non funziona invece il lato della politica di bilancio, che avrebbe dovuto essere più rigorosa. Il debito esplode e solo negli anni ’90 si apprezzeranno dei miglioramenti, tutti in chiave dei criteri di ammissione all’Ue. Insomma, la politica monetaria è fondamentale, ma non può funzionare da sola, senza una politica di bilancio responsabile.

Dieci anni fa Draghi – era il 2011, anno della grande crisi e della sua nomina alla presidenza della Bce – scrisse dei passaggi fondamentali, anche per l’oggi. Anzitutto la decisione, che «pur rivestita di panni “tecnici”, ha forti effetti politici di lungo periodo». A proposito anche del suo incarico di guidare il governo. Dal 2011 a oggi è accaduto molto, ma i fondamenti restano gli stessi. «La credibilità della politica monetaria, che l’Eurosistema ha ereditato dalle migliori tradizioni delle banche centrali partecipanti, ha rafforzato la resistenza delle economie dei paesi dell’area di fronte a shock avversi», scriveva Draghi, concludendo: «Trenta anni fa, nel nostro paese, Andreatta e Ciampi seppero guardare avanti, e lontano». Forse lo stesso che la stragrande maggioranza del Paese si aspetta ora da lui.

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