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«Il futuro dell'architettura? Fare di più, con meno», parola di Norman Foster

Pioniere di una progettazione verde ad alto impatto emotivo, da oltre cinquant'anni l'architetto crea stili di vita, oltre che skyline. E teorizza che ogni edificio, pubblico o privato, debba restituire qualcosa alla città.

di Jackie Daly

Norman Foster nella Rudolph Hall della facoltà di Architettura di Yale, uno dei primi e più noti esempi di Brutalismo negli Stati Uniti. Foto Weston Wells.

7' di lettura

Lord Norman Foster ha concepito alcuni degli edifici più iconici del mondo: il Gherkin di Londra, il Reichstag di Berlino, l'Apple Park di Cupertino e il quartier generale della Hong Kong & Shanghai Bank. Ma se gli si chiede quale futuro progetterebbe, avendo a disposizione risorse illimitate, il suo ideale non è uno skyline alla Blade Runner, con grattacieli cinetici e auto volanti, bensì qualcosa di più semplice e sostenibile, costruito intorno al concetto di comunità. «Un quartiere autosufficiente», racconta dalla sua casa negli Stati Uniti. Ottantasei anni, abbronzato, è impeccabile nel suo look casual, interamente bianco. «La progettazione è una continua ricerca della perfezione, quindi dovrebbe esserci sinergia tra la vita che si vive e i rifiuti che si generano: invece di essere interrati, dovrebbero essere trattati in modo da produrre energia o diventare qualcos'altro, per esempio fertilizzanti», continua con il tono sicuro e misurato di un oratore esperto. «Così si produrrebbe energia pulita, superando la vecchia concezione delle grandi centrali elettriche e delle linee ad alta tensione proprio com'è accaduto alle vecchie infrastrutture con pali del telefono, cavi e scambi nel campo delle comunicazioni. Questo ipotetico quartiere funzionerebbe in modo più elegante, oltre a fare di più con meno».

Le affermazioni di Foster sulla sostenibilità non stupiscono: è un concetto sul quale lavora da tempo. E non sorprende nemmeno la sua convinzione che le città siano il futuro, nonostante il cambio di paradigma portato dalla pandemia. Ne ha parlato in alcuni recenti incontri, facendo notare come le città evolvano in continuazione, tracciando parallelismi con altri eventi traumatici della storia che hanno amplificato e accelerato i cambiamenti. «Se pensiamo al Dna di Londra, con le case a schiera georgiane e gli edifici di mattoni, non ci vengono in mente i sistemi antincendio, il Grande Incendio di Londra, il regolamento edilizio sui muri di confine. Pensiamo a piazze, spazi pubblici maestosi e a una città intensa, percorribile a piedi, sostenibile». Saggiamente Foster si guarda bene dal fare previsioni; piuttosto suggerisce un futuro possibile, in cui i cambiamenti nel campo della mobilità (la scomparsa di auto che bevono litri di benzina) e nella destinazione d'uso degli edifici possano migliorare la qualità della vita: convertire un obsoleto parcheggio urbano in una fattoria, consentendo agli abitanti di usare meno acqua, meno fertilizzanti e di ridurre la propria impronta ecologica; trasformare gli uffici dismessi in case per quei lavoratori essenziali che sono stati relegati alle periferie estreme delle metropoli.

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Foster di fronte alla Edward P. Evans Hall, la nuova sede della School of Management di Yale, progettata da Foster + Partners e inaugurata nel 2014. Foto Weston Wells.

 

Queste affermazioni potrebbero sembrare in contraddizione con l'ultimo progetto londinese del suo studio: la ristrutturazione, da un miliardo di sterline, dei grandi magazzini Whiteley – un pezzo di storia della città, concepiti nel 1911 come uno dei primi multistore di lusso – che verranno trasformati nel primo Six Senses hotel & spa della Gran Bretagna, completo di negozi e appartamenti esclusivi. Ma tutto riacquista un senso quando Foster parla del The Whiteley come di un “edificio riciclato”. «Diventerà il non plus ultra della sostenibilità: è un elemento del passato che può essere rigenerato – e questo significa investire sul futuro», afferma. Foster ha sviluppato l'amore per le città e le loro infrastrutture, quella che lui chiama “tessuto urbano”, da ragazzo. È cresciuto in una villetta a schiera di Manchester, quando la città era piena di ciminiere fumanti e fabbriche di mattoni rossi e sorride mentre ricorda di aver abbandonato la scuola a 16 anni per lavorare al Municipio di Manchester, dove era rimasto per due anni prima di essere chiamato a servire nella Raf. «Avevo sempre avuto una passione per gli edifici e mi sono ritrovato immerso nella straordinaria architettura gotico-vittoriana del Municipio. Andavo in giro, imparavo, facevo schizzi»: così descrive la sua vita in città dopo il servizio militare. «È stato allora che l'amore per l'architettura, le macchine, il disegno e la modellazione hanno trovato una sintesi: i puntini si sono uniti e sono riuscito a entrare all'università. Sono stato molto fortunato».

Il Whiteley, a Londra, che dovrebbe essere inaugurato nel 2023. Foster & Partners

 

Foster chiama spesso in causa la fortuna, riferendosi alla sua carriera, ma sin dall'inizio si è distinto per le sue qualità eccezionali. Non essendo riuscito a qualificarsi per un corso di laurea attraverso i canali convenzionali, l'Università di Manchester creò apposta per lui un corso di diploma. Durante quel periodo lavorò sempre, disegnando per studi di architettura locali e facendo lavori manuali per mantenersi. «L'architettura era come una religione: avrei pagato, letteralmente, per farla», dice, aggiungendo che integrava i suoi guadagni con i concorsi. «Con alcuni disegni per un concorso del Riba (il Royal Institute of British Architects, ndr) una volta ho vinto mille sterline, l'equivalente di almeno diecimila sterline di oggi. Con quei soldi ho scoperto Palladio e Jørn Utzon, ben prima che vincesse il concorso per l'Opera House di Sydney nel '57», racconta. «La passione per l'architettura era totalizzante e, subito dopo la laurea a Manchester, durante l'estate, sono andato a Londra per iniziare a lavorare per lo stesso studio che mi aveva aiutato quando ero uno studente». Poi, messo da parte abbastanza denaro, è volato in America («Un biglietto di sola andata da 100 sterline», dice di quella che doveva essere una cifra notevole per un neolaureato) e, grazie a una borsa di studio della Henry Fellowship, è entrato a Yale. «Il rettore era Paul Rudolph che, in Florida, aveva introdotto uno straordinario modo di fare architettura. Era il tipico eroe americano che sperimentava nuove tecnologie, ma aveva anche studiato con Gropius, fra i fondatori del movimento Bauhaus. In pratica, sono dovuto andare fino in America per avere un'istruzione europea!».

Il Reichstag di Berlino, 1999. Foster & Partners

 

Ci sono stati anche altri mentori. «Sebbene fosse nato in Cecenia, Serge Chermayeff incarnava l'essenza stessa dell'Europa e parlava come un filosofo. Poi c'era Vince Scully, che rendeva la storia una cosa viva. Era capace di prendere un film in programmazione al cinema locale come I magnifici sette, paragonarlo al giapponese I sette samurai e poi trovare un nesso culturale con James Joyce, l'orizzonte infinito e il modo in cui Frank Lloyd Wright posizionava gli edifici. E da lì creava un collegamento con i Greci e il Partenone, per poi tornare a Saarinen e a cosa stava facendo nel suo studio di architettura poco lontano da lì: cuciva tutto insieme». Molti di questi ricordi sono emersi a una recente conferenza che l'architetto ha tenuto per gli studenti di Yale, durante la quale ha mostrato alcuni disegni – fatti nello studio di Paul Rudolph – del luogo esatto in cui si trovava in quel momento.

Il Great Court del British Museum, Londra, 2000. Foster & Partners

 

Foster si illumina quando racconta il modo in cui le persone interagiscono con i suoi edifici. Ricorda quando l'aeroporto londinese fu inaugurato dalla Regina nel 1991: un poliziotto a Stansted gli disse che «non aveva mai visto niente di più bello» di quel vasto spazio aperto, scandito dalla struttura del soffitto che sembrava galleggiare. Il capocantiere del Renault Centre a Swindon (inaugurato nel 1982 e inserito nel 2013 nella classificazione dell'English Heritage) – «un osso duro a capo di una squadra di gente ancora più dura» – gli raccontò che «a fine giornata, quando era fisicamente e mentalmente esausto, andava sul tetto e guardava il tramonto: era una sorta di momento zen. Queste persone non leggevano di architettura, ma ne facevano esperienza». Dietro al successo della cupola di cristallo a spirale posta in cima al Reichstag di Berlino – una struttura completata nel 1999, come simbolo della riunificazione della Germania, che Foster considera uno dei suoi edifici “riciclati” – c'è anche questa esperienza emotiva. «È di gran lunga il Parlamento più visitato del mondo, migliaia di persone si mettono in fila per salire le rampe della spirale. Credo che abbia un grande impatto perché, simbolicamente, la gente si trova a un piano superiore rispetto ai politici che a loro devono rispondere», commenta.

Il Gherkin di Londra, 2004. Foster & Partners

 

La Hearst Tower, New York, 2006. Foster & Partners

Il progetto ha dato l'opportunità a Foster di promuovere i suoi principi ecologisti. «Ha offerto la possibilità di essere d'esempio per la nazione e dimostrare che è possibile intervenire sul cambiamento climatico e ridurre le emissioni di Co2», afferma. Questi concetti hanno influenzato il lavoro di Foster ben prima che diventassero mainstream. «Negli anni Sessanta parlavamo già di risparmio energetico e di riciclo, stimolati da Rachel Carson e dal suo libro Primavera Silenziosa (pubblicato in Italia da Feltrinelli, ndr) e da Manuale operativo per Nave Spaziale Terra (pubblicato in Italia da Il Saggiatore, ndr) di Buckminster Fuller. Non parlavano solo di architettura green, rappresentavano la nascita del movimento ecologista».

L'Apple Park, Cupertino, 2018. Foster & Partners

In occasione del suo ottantesimo compleanno si sono radunate per festeggiarlo alcune delle persone importanti che lo hanno accompagnato nel corso della sua carriera. «Fred Olsen, seduto accanto a me, ha sottolineato quanto fossimo avanti per l'epoca. Il mio unico rimpianto è di non aver realizzato più cose insieme a lui», dice Foster commentando il progetto per i Millwall Docks, sul Tamigi. Quell'incarico fu il primo per Foster e sua moglie, la scomparsa Wendy Cheesman, con cui nel 1967, in un monolocale, aveva creato la Foster Associates. «Erano progetti importanti perché anticipavano i tempi. Negli anni Settanta costruivamo già edifici sani, che respiravano e che sono ancora lì, come il Sainsbury Centre for Visual Arts». Foster traccia un collegamento fra i suoi primi progetti e i più recenti: il campus dell'Apple Park, in California, progettato nel 2018 come un grande anello alimentato solo da energia rinnovabile; il quartier generale di Bloomberg a Londra, vincitore del Premio Stirling: rispetto ai tradizionali palazzi per uffici, utilizza il 70 per cento di acqua e il 40 per cento di energia in meno. Secondo l'architetto, un edificio «deve restituire qualcosa alla città», magari includendo al piano terra spazi dove si possa socializzare, oppure viali alberati che purifichino l'aria.

Lo Zayed National Museum, Abu Dhabi, 2022. Foster & Partners

 

Ma conta anche l'energia del coinvolgimento personale: «Che io stia lavorando a un progetto filantropico per i bambini di Harlem o al mega edificio di JP Morgan su Park Avenue, l'euforia che provo è la stessa», afferma. Attraverso la sua Fondazione, Foster ha curato la mostra Motion. Autos, Art, Architecture, fino al 18 settembre al Museo Guggenheim di Bilbao: «Per realizzarla ho riunito 16 scuole di arte e architettura di tutto il mondo. Seguo con molta attenzione le nuove generazioni di architetti», spiega. Lo riportano con la mente ai tempi di Yale e alle persone che hanno influenzato la sua carriera. «Ho un debito nei confronti dei miei mentori, per esempio Buckminster Fuller, con cui ho avuto il privilegio di lavorare negli ultimi 12 anni della sua vita. Sono stato molto fortunato», conclude. Chissà, magari tra cinquant'anni uno dei suoi studenti dirà la stessa cosa di lui.

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