SOSTENIBILITA'

Il futuro è un terreno nutrito e sano, che produce ingredienti per il fashion system

Oggi che le idee di Orsola de Castro sembrano meno rivoluzionarie e più strutturali al fare impresa, la sua scommessa sale di grado. Mai sentito parlare di agricoltura della moda?

di Alexis Paparo

4' di lettura

Quando, nel corso dell'intervista, la definisco “una pensatrice della moda”, commenta: «Mi piace! In effetti in questo periodo sto avendo una sorta di crisi d'identità. Ho iniziato negli anni Novanta come upcycler, poi mi sono ritrovata a essere curatrice, rivoluzionaria, adesso scrittrice (l'edizione italiana del suo Loved Clothes Last sarà in libreria l'11 marzo per Corbaccio con il titolo I vestiti che ami vivono a lungo). La definizione mi descrive bene!». Orsola de Castro che, insieme a quanto già citato, è co -fondatrice e direttore creativo di Fashion Revolution e Fashion Open Studio, vede realizzarsi adesso nella moda ciò che metteva in pratica oltre venti anni fa: l'attenzione al vintage, all'usato di lusso, all'upcycling, alle pratiche sostenibili per le persone e per l'ambiente.

La copertina del libro, edito da Corbaccio.

In collegamento dal living della sua casa londinese, in cui spicca una gioiosa carta da parati fiorita, sorride in una maglia a righe colorate che ben dialoga con la gonna a fiori. «Ho avuto un percorso per certi versi utopico, ma sempre mantenendo la stessa direzione, e ho avuto l'opportunità di influenzare i giovani designer e chi è venuto dopo di me. È la meraviglia totale e assoluta della mia posizione. Che questi concetti stiano penetrando strutturalmente nell'industria mi dà un senso di sollievo - ci si sente meno matte - ed è stata una grande validazione. Ho avuto la pazienza di dire “aspetto”. Ora ci credono in tanti». Adesso che il suo passato sta diventando presente, How to Spend it ha scelto di chiederle come vede il futuro prossimo della moda, e quali strategie pensa che il settore dovrebbe mettere in campo per trasformare l'attuale crisi in un'opportunità di crescita economica, creativa, sociale.

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Per de Castro, si deve avere ben chiaro che non si può continuare a “estrarre”, ma bisogna imparare a trasformare, utilizzando tutte le risorse, naturali e umane, in modo più efficiente. È un momento interessante per la moda: può diventare veicolo di etica e cultura, la trasformazione estetica di un materiale può essere portatrice di una trasformazione emotiva e di pensiero. Non nega che, negli ultimi anni, an-che i grandi gruppi abbiano iniziato a muoversi in questa direzione. «Quando ho cominciato questo percorso i direttori di Csr erano praticamente soli, adesso ci sono dei veri team, con budget consistenti; è un risultato tangibile. All'epoca le risorse venivano dal marketing. Eppure io non credo tanto nella cascata, ma nella salita, credo nei salmoni. Più è grande il gruppo, più ci sono difficoltà e limiti nell'innovare». Secondo de Castro il futuro della moda dovrebbe guardare alla moltitudine. Non cercare tan-to la soluzione unica del problema, ma approfondire e sostenere il percorso dei tanti. «L'equazione del futuro è un'anima collaborativa. Ciò che noto nei brand emergenti, anche attraverso il lavoro di Fashion Open Studio che se ne fa catalizzatore, è la voglia di collaborazione, non di dominazione del mercato».

Orsola de Castro.

Emergono i nomi di designer di cui de Castro è o è stata mentore: Bethany Williams, il cui business model destina una parte dei suoi profitti ad associazioni di promozione sociale; Christopher Raeburn, oggi direttore creativo di Timberland; Flavia La Rocca, che propone abiti modulari realizzati con materiali certificati e riciclati; poi Bianca Saunders, Helen Kirkum, Phoebe English, Kevin Germanier, Soup Archive, Iro Iro. In quest'ottica, «sarebbe bello che le strade dello shopping, accanto a fast fashion e luxury, dessero visibilità anche a questi creativi portatori di diversità. Credo che nel post Co-vid sarà inevitabile, a causa dei molti spazi commerciali lasciati vuoti, e mi batterò perché ciò avvenga anche come scelta urbanistica». In questa visione che identifica le vie dello shopping come spazi d'integrazione per sistemi diversi, de Castro aggiunge un tassello: luoghi dedicati alla riparazione di abiti e accessori, ma “fashionizzati”. Un modo per dare visibilità a savoir-faire a rischio estinzione, oltre che a prolungare la vita dei capi.

Proprio quest'ultimo punto è protagonista del suo libro, dove aggiustare un abito - e sono presenti tan-ti spunti da mettere subito in pratica - vuol dire provare a riparare il sistema che lo ha prodotto, dar vita a un guardaroba sentimentale. Individuando gli obiettivi a breve termine del sistema moda, il mondo del lusso deve arrivare alla totale tracciabilità - «non credo che si possa utilizzare la parola lusso, se il prodotto non ha il pedigree trasparente, certificato e visibile al consumatore» - mentre il fast fashion ha un doppio obbligo. Migliorare l'approvvigionamento e la qualità delle materie prime e offrire riparazioni a basso costo dei propri prodotti - che invece è più semplice buttare e ricomprare - attraverso corner dedicati nei negozi. A tutti i livelli, invece, suggerisce la riduzione dei volumi di produzione, anche attraverso capsule collection ed edizioni speciali, e la conversione in risorsa di ciò che fino a ieri veniva considerato rifiuto, come invenduti e semilavorati.

«In un Ted Talk del 2009 avevo proposto la creazione di una nuova posizione lavorativa, il creative waste engineer, come figura doppia e speculare, a contatto con i designer e con la produzione, per ottimizzare al massimo le risorse». Adesso che il riciclo creativo sta prendendo piede anche in case di moda come Maison Margiela, Miu Miu, Emporio Armani, per de Castro diventa il punto di partenza. «L'upcycling deve portare con sé il reskilling, ovvero una formazione specifica nelle scuole di moda e nei luoghi di lavoro sull'assemblaggio e disassemblaggio dei capi, un patrimonio di conoscenza che può trasformarsi in opportunità creative e lavorative».

Un estratto della fanzine “Fashion EnvironmentcChange” (maggioc2020, 4,50 £) diFashion Revolution.

Guardando al futuro, de Castro vede un ritorno alla cura del suolo, perché un terreno nutrito e sano è la chiave per “ingredienti” come lana, cotone, canapa. Lo sviluppo di un'agricoltura della moda sarà uno dei temi più interessanti del mondo del lusso. Cita Emma Bruschi, designer che tesse, fila, lavora all'uncinetto la paglia, vincitrice del The Chanel Métiers d'Art 19M e del Mercedes-Benz Grant all'ultima edizione del Festival internazionale di Hyères. A me tornano in mente le parole che mi ha detto, qualche mese fa, Alberto Candiani, quarta generazione del brand omonimo e inventore del primo denim stretch biodegradabile: «Un giorno avremo il nostro indaco, la nostra canapa, fertilizzeremo i campi con i jeans Coreva e chiuderemo il cerchio». Forse non è un futuro così lontano.

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