sbagliando si impara

Il futuro post Covid si costruisce oggi, guardiamo lontano perché sia migliore

Da ogni catastrofe possiamo estrarre elementi e frammenti di una futura sapienza: serve tempo, riflessione, capacità di analisi e visione prospettica

di Andrea Beretta *

(via REUTERS)

4' di lettura

Ci si interroga, nelle aziende, e la domanda è sempre la stessa: che fare? Bene che ci si interroghi, ancora, su un tema così articolato e complesso che ha a che vedere con l’eredità dei lunghi mesi di Covid, che hanno stravolto le politiche di gestione del personale, i riti e le liturgie quotidiane dei dipendenti, i percorsi e i progetti di formazione, i programmi di alfabetizzazione digitale e/o di digital innovation delle aziende.

Una questione che ha da una parte una dimensione filosofica e antropologica; e, dall’altra, ricadute concretissime sulle future giornate lavorative delle persone, sui modelli organizzativi delle imprese, sulla cultura del lavoro del prossimo futuro. Nella maratona Esseri Umani dello scorso 21 aprile, in pieno lockdown, Ferruccio De Bortoli esprimeva con forza e chiarezza una sua preoccupazione, relativa a un possibile processo di rimozione collettiva post pandemico, dal suo punto di vista pericoloso e possibile, viste alcune consolidate italiche cattive abitudini.

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Gli stravolgimenti sono stati tali e tanti da sembrare oggi scongiurato il rischio. Ma le opinioni e le decisioni che dentro e fuori il mondo del lavoro sono state espresse e prese (in merito all’implementazione nell’utilizzo dello smart working, alla digitalizzazione di lavori e attività fino a pochi mesi prima ritenuta impossibile, alla distribuzione massiva di tool di lavoro a distanza, alla ricerca e promozione di futuristiche forme di engagement e di manutenzione del commitment) sono state ondivaghe, spesso ambivalenti e, in molti casi, affrettate e superficiali.

Non era facile fare diversamente in un momento di incertezza così lungo e totalizzante e di performance aziendali così terrificanti: forse, meno fretta e più visione prospettica e retrospettiva sul medio e lungo periodo, avrebbero potuto (e potrebbero ancora) giovare.

Tra i talebani del «lavoro da casa sempre, tutti e subito» e i passatisti del «ritorno in ufficio a tutti i costi, così la gente ricomincia a lavorare», mi pare interessante più che proporre soluzioni standardizzate, individuare un approccio che consenta di evitare il rischio opposto alla rimozione collettiva, ovvero il miraggio collettivo di una futuristica «isola che non c'è».

Consapevole sia della necessità di attivare una riflessione ampia, attenta e puntuale, capace di analizzare caso per caso, mestiere per mestiere, modello di business per modello di business, persona per persona, prima di decidere «che fare»; sia dell’evidenza che viviamo un momento storico in cui il passaggio al prossimo futuro lavorativo dovrà essere accompagnato da più rivoluzioni copernicane.

Perché le nostre abitazioni non sono fatte perché ci vivano e lavorino e studino quattro o cinque persone insieme contemporaneamente; perché le nostre scuole non sono pronte a gestire processi di apprendimento a distanza; perché i nostri uffici (ebbene sì, ci sono un sacco di uffici, Milano si è riempita di torri piene di uffici) non sono stati pensati e realizzati per essere vuoti; perché il nostro management in genere ha in mente una people strategy fondata su prassi e azioni che si svolgono (fino all’altro ieri si sono svolte) «dal vivo».

L’antropologo Vito Teti, nel suo libro Prevedere l'imprevedibile, ottimamente recensito da Adriano Favole nella Lettura del 12 luglio, esplora e racconta della presenza delle catastrofi, le Apocalissi, nella nostra storia e, da questo suo saggio, traggo la proposta di un approccio che mi pare utile ed evolutivo anche per aiutare le aziende a trovare una risposta alla domanda inziale: «che fare?». Sintetizzo la riflessione in tre assunti.

Il primo: le catastrofi ci sono sempre state e hanno accompagnato la nostra storia, per cui tanto vale aspettarsele e provare a prepararci al loro arrivo. Su questo aspetto, impossibile non citare tutto il lavoro di Edgar Morin sul tema della gestione dell’incertezza.

Il secondo assunto è che le catastrofi hanno lasciato tracce evidenti nel nostro linguaggio e nelle nostre culture e si sono costituite quindi, come forme di sapienza dei mondi che ad esse sono succeduti. La nostra sapienza dunque è figlia della nostra capacità di sopravvivere alle catastrofi e di farne tesoro.

Il terzo assunto si fonda sulla distinzione che Teti fa di due diverse forme di nostalgia, di cui noi esseri umani siamo capaci: una nostalgia patologica e restauratrice, che guarda al futuro aspirando al ritorno del passato così com’era, prima della catastrofe. Una nostalgia triste, sterile, ripiegata su un mondo rimpianto che non c’è più e che si vorrebbe ancora, ma che sappiamo in realtà che non tornerà mai più.

E una seconda forma di nostalgia: creativa, critica e riflessiva che guarda al passato per coglierne una possibile eredità, passando al setaccio ciò che si può e che vale la pena salvare e su cui generare il futuro. Un futuro che non c’è e non sappiamo come sarà, ma che possiamo contribuire a costruire, certi che sarà diverso dalla storia che ci siamo lasciati alle spalle.

Ogni catastrofe lascia un segno e da ogni catastrofe possiamo estrarre elementi e frammenti di una futura sapienza. Serve tempo, riflessione, capacità di analisi e visione prospettica. Serve la consapevolezza che, quale che sia, il futuro che ci aspetta non è dato a priori ma possiamo e dobbiamo costruirlo. Non sarà un futuro esente da altre catastrofi o pandemie ma potrà essere, per citare il titolo di una novella di Asimov, un Futuro Fantastico, sia nel senso di meraviglioso, sia nel senso di generato dalla nostra fantasia.

Se questo è l'auspicio, vale la pena, credo, lasciare spazio a questa forma di nostalgia e ripensare ai lunghi mesi trascorsi pericolosamente a contatto con la pandemia per liberare la nostra fantasia.

* Partner di Newton S.p.a.

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