Il giorno che è oggi
Il racconto di questi giorni attraverso la voce di uno scrittore: «Viviamo tutti alla giornata, modificando di continuo le nostre idee, smantellando i nostri pregiudizi, riformulando le nostre priorità», dice
di Gianni Biondillo
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Scrivi, mi dicono. In fondo per te cosa cambia? Ora hai tutto il tempo che vuoi. Scrivi “Il grande romanzo italiano sul Coronavirus”. Certo, la fate facile. Ma scrivere è un progetto. Cioè, etimologicamente, un gettare oltre, un guardare il futuro. Ma io, come tutti, mi sento compresso in questo presente sospeso e incomprensibile. Scrivere, parrà strano, non è un’attività solitaria. Si nutre di incontri, di rapporti, di vita.
L’autoreclusione è una scelta, un atto di libertà. Potrei uscire, perdere tempo, andare al cinema o in pizzeria e invece scelgo la solitudine. Per scrivere, per progettare. Ma quando diventa un obbligo esterno, un vincolo, una lotta per la sopravvivenza collettiva, come puoi permetterti di fare finta di niente, come se quello che accade là fuori non ti riguardasse? Non ho nessuna voglia di scrivere alcun “grande romanzo”. E neppure piccolo. Non ho così tanta arroganza o presunzione. Viviamo tutti alla giornata, modificando di continuo le nostre idee, smantellando i nostri pregiudizi, riformulando le nostre priorità.
Alle prime avvisaglie dell’arrivo del virus in Italia, avevo un atteggiamento distaccato, sufficiente. Quando i miei concittadini hanno iniziato a prendere d’assalto i supermarket mi permettevo battute snob sull'infantilismo degli italiani. D’altronde l’avevamo inventato noi il melodramma, giusto? Spesso lo sguardo compassato è solo un'altra forma di autodifesa. Finché erano i cinesi quelli da prendere in giro era tutto più facile.
Ora gli untori eravamo noi: l’anello debole di un Occidente presuntuoso troppo convinto che queste cose capitino sempre da altre parti. Ma non esistono “altre parti” in un mondo globalizzato. I confini non hanno senso di fronte a un nemico che non ha volto e l'assalto ai supermarket alla fine è stato replicato ovunque, dagli Stati Uniti al Giappone. Siamo tutti uguali di fronte alla paura. Vedere svuotare la mia città è stata una ferita al cuore. Milano non sta nei suoi monumenti, nei suoi parchi, nelle sue piazze. Milano sta nella frenesia dei suoi abitanti, indaffarati fino allo spasimo, eppure contenti. Rallentare la produzione, proibire i contatti, chiudere le scuole, chiuderci in casa, è stato uno shock, inutile negarlo. Ma è stato per me anche un bagno d'umiltà. Mi piace l'idea di un Paese umile. L’idea di una nazione capace, nel momento estremo, di comportarsi come stiamo facendo noi italiani, in barba a tutti i luoghi comuni che girano sul nostro conto. Io di mio in questi giorni di reclusione forzata mi preoccupo di cosa cucinare a pranzo, di innaffiare le piante, di controllare i notiziari, di gettare la spazzatura, di fare la spesa. Non ho tempo per grandi romanzi, non ho voglia di esibizioni ipertrofiche del mio ego. Abbarbicati in casa, obbligati, per il bene di tutti, a questa reclusione coatta, ho smesso di pensare al futuro. Non so bene come pagherò il mutuo o come salderò le bollette.
Quello che mi interessa oggi è fare assieme a mia figlia Laura almeno cinque volte le rampe delle scale del mio condominio. Quattro piani, su e giù, che fa bene al cuore e alle gambe. Poi magari organizzare con mia moglie Elena un pranzo sfizioso o con l'altra figlia, Sara, valutare il palinsesto televisivo per programmare la serata. Leggere? Sì, ma il solito, come sempre. Scrivere? Non se ne parla proprio. Comportamenti semplici, umili, dignitosi, capaci di ridefinire cosa è importante per davvero e cosa è superfluo. Da questa crisi globale — crisi sanitaria, sociale, economica — dobbiamo uscirne tutti. Migliorati, immuni e solidali. Umili, ma non umiliati.
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