Il giorno in cui il “Che” vinse gli ottocento
Il 24 luglio a Tokyo avrebbero dovuto aprirsi le XXXII Olimpiadi. Per non rinunciare a quel sogno il magazine del Sole 24 Ore ha chiesto a cinque grandi scrittori di narrarci cinque atleti: sono le nostre Olimpiadi per l'estate 2020. Dopo Sandro Veronesi, Paolo Cognetti e Walter Siti, questa è la quarta puntata
di Giacomo Papi
4' di lettura
Qualche giorno dopo avere visto la foto del suo cadavere, lo vidi battere il record mondiale degli 800 metri piani. Era il 1973, avevo quattro anni e mio padre dopo pranzo stava leggendo il giornale. In prima pagina c'era la foto di un uomo a torso nudo, morto. Aveva la barba nera e i capelli lunghi, i piedi scalzi in primo piano, e gli occhi aperti che non guardavano niente.
Intorno altri uomini, militari, uno gli teneva la testa, altri fissavano soddisfatti l'obiettivo per mostrare la preda. Chiesi chi fosse. Mio padre mi spiegò che era Ernesto Che Guevara, un rivoluzionario argentino ammazzato nel 1967 perché cercava di liberare i contadini boliviani. Non eravamo cattolici, mai stati, e non avevo mai visto il Cristo del Mantegna, né altre deposizioni, eppure credo che quella foto sgranata con il retino dei quotidiani di allora sia stato il mio primo incontro con la morte, con l'eroismo e con il senso del sacro.
Una sera di giugno – il 27 del 1973 – Che Guevara mi riapparve risorto in tv. All'Arena di Milano l'Italia sfidava la Cecoslovacchia, la prima gara di atletica che vidi in vita mia. Non c'era dubbio: Che Guevara era lì, in mezzo alla pista, e correva come un ghepardo, vivo e imprendibile, la barba e i capelli neri nel vento notturno, le spalle larghe e le gambe lunghissime che inghiottivano la sua corsia come compassi, mentre un inseguitore stortignaccolo annaspava dietro di lui.
La cosa strana è che il telecronista non lo aveva riconosciuto. Gridava un altro nome: «Fiasconaro! Fiasconaro! Fiasconaro! Marcello Fiasconaro vince in 1'43''7 staccando il ceco Jozef Plachý! È record del mondo!». I bambini vedono cose che gli adulti non vedono: sono ancora convinto che quella sera Che Guevara sia tornato dalla morte per dimostrare al mondo di potere correre più veloce di tutti e che nessuno lo avrebbe mai preso. Marcello Fiasconaro, d'altra parte, era tante cose che non sembrava. Aveva un cognome che faceva pensare al vino all'ingrosso, da meridionale tracagnotto, invece era alto e non parlava quasi italiano.
Era nato nel 1949 a Cape Town, da Gregorio, un baritono siciliano cresciuto a Genova e trasferitosi a Milano, che durante la Seconda guerra mondiale era stato abbattuto in Kenya e deportato dagli inglesi in un ospedale sudafricano dove aveva incontrato e sposato un'infermiera e indossatrice, Mabel Marie Brabant, discendente di una nobile famiglia belga. In più Fiasconaro non era un ottocentista, e neppure un quattrocentista, era un giocatore di rugby che si accorse per caso, e tardissimo, di poter essere il più veloce del mondo.
In cinque anni vinse l'argento nei 400 e il bronzo nella staffetta agli Europei di Helsinki nel 1971. Ai miei occhi il suo record del 1973 brillò come la prima di una lunga serie di vittorie, invece fu l'ultima. Alle Olimpiadi del 1976 di Montréal, le prime di cui ho vaga memoria, lo aspettai inutilmente. Dopo essersi fratturato un piede e strappato il tendine d'Achille, Fiasconaro aveva deciso di tornare al rugby, giocando cinque gare (otto mete) nel Cus Milano. E così di Montréal 1976 mi è rimasto in mente soltanto il bronzo nel tiro a volo di Ubaldesco Baldi, per via del nome suppongo.
Per le famiglie di sinistra degli anni Settanta, lo sport – e il corpo in generale – non veniva al primo posto, e neppure al secondo o al terzo. Esserne attratti, per un bambino, era un po' imbarazzante. Ma rassegnarsi alla gracilità dei propri padri era un dolore. La soluzione al mio bisogno di conferme fu Fiasconaro: il fatto che la reincarnazione di Che Guevara potesse trionfare correndo così veloce, e con tanta eleganza, dimostrava che anche i miei genitori potevano essere eroi. Fiasconaro potevi immaginarlo con l'eschimo, mica come Abebe Bikila, l'etiope scalzo di Roma 1960, o Tommie Smith e John Carlos che, alzando i pugni neri guantati sul podio dei 200 alle Olimpiadi di Messico 1968, oscurarono l'argento di Peter Norman, che era bianco e australiano e fu fatto a pezzi nel suo Paese per avere solidarizzato.
Fu proprio perché aspettavo Fiasconaro, cercandolo in ogni atleta baffuto, che mi misi a tifare Perugia (alla pari con il Milan). Anche se il comunista Paolo Sollier se ne era già andato, nelle figurine Panini tutti i calciatori del Perugia avevano barba e baffi, e capelli spettinati come in un corteo studentesco. Rivedo ancora le facce: Luciano Zecchini, stopper, Roberto Marconcini, portiere, Maurizio Amenta, Michele Nappi, terzini, Pierluigi Frosio, libero, Aldo Agroppi, mediano di spinta, Mario Scarpa, Roberto Ciccotelli, il povero Renato Curi, oltre a Comunardo Niccolai naturalmente, che era pelato e glabro, ma aveva per nome un manifesto politico. Invece in atletica, dopo Fiasconaro che oggi è un gioviale signore sudafricano, la rivoluzione scarseggiava.
Per un po' provai ad appassionarmi a Mariano Scartezzini, tremilasiepista di Trento, magro e biondastro come un eremita bizantino e barbuto come un anarcoinsurrezionalista, che nel 1979 vinse l'oro agli Europei e ai Giochi del Mediterraneo e il bronzo ai Mondiali. Scartezzini non assomigliava per niente a Che Guevara, in compenso era uguale a Tonino, un amico di famiglia di Potere Operaio. Non avendo di meglio, mi sforzai di sperare in lui per la rivincita della sinistra alle imminenti Olimpiadi. Purtroppo, l'Italia boicottò parzialmente quelle di Mosca del 1980, non mandandoci atleti militari. E Scartezzini era finanziere, mannaggia a lui. Ho poi saputo che insegnò educazione fisica in un liceo di San Lazzaro di Savena.
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