Il grande economista che non vinse il Nobel
di Alberto Mingardi
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Negli anni Settanta, il dipartimento di economia della “University of California Los Angeles” era noto, fra il serio e il faceto, come “la Chicago della costa Ovest”. Se a Chicago la progenie intellettuale di Frank Knight e Henry Simons aveva dato origine a un ambiente intellettuale straordinariamente vivace, i cui maggiori esponenti segnavano lo sviluppo dell'economia del Novecento dalla microeconomia alla teoria monetaria, a Los Angeles alcuni studiosi davano mostra dello stesso rigore analitico e di un'analoga passione per difendere le ragioni dell'economia di mercato, allora minoritarie come e più di oggi. Harold Demsetz, scomparso a 89 anni lo scorso 4 gennaio, era, di questo gruppo, una figura centrale. Originario dell'Illinois, a Chicago aveva insegnato prima di stabilirsi in California. Qui aveva trovato alcuni colleghi, come Armen Alchian, William Allen e Jack Hirshleifer, di simile sentire.
Demsetz è probabilmente se non il, uno dei più importanti economisti che non abbiano preso il Nobel. Con il suo collega Armen Alchian scrisse uno dei paper tutt'oggi più citati nella letteratura economica (”Production, Information Costs, and Economic Organization”, del 1972) nel quale i due ripresero le riflessioni sviluppate da Ronald Coase in un saggio del 1933 sulla natura dell'impresa. Coase, inglese trapiantato a Chicago, esercitò una forte influenza sulla “Chicago occidentale”: anche questi suoi colleghi dedicarono molta attenzione ai temi delle istituzioni e del diritto, quando la “law and economics” muoveva i suoi primi passi.
In quel saggio, Demsetz e Alchian cercarono di comprendere quale sia la differenza fra i contratti stipulati all'interno dell'impresa (tipicamente fra l'azienda e i suoi impiegati) e quelli stipulati al di fuori dell'impresa stessa, con fornitori o consumatori. Demsetz e Alchian suggerirono che alcuni rapporti vengono stabilizzati e portati “all'interno” dell'impresa per ridurre i costi legati al monitoraggio della prestazione che viene acquistata. L'idea ha aperto la strada a tutto un filone di studi.
Quest'attenzione ai contratti e alle imprese per come effettivamente sono portava Demsetz ad essere critico dei modelli di concorrenza perfetta. Il fatto che la realtà non assomigliasse al modello, ovvero che alcune imprese avessero “potere di mercato”, non necessariamente impediva al sistema dei prezzi di svolgere la sua funzione: cioè di coordinare persone che hanno fini e obiettivi diversi, eppure riescono a produrre beni e servizi in un'economia di mercato.
Nel suo lavoro forse più noto, “Towards a Theory of Property Rights”, del 1967, Demsetz faceva abbondante uso di materiale storico, interrogandosi sull'insorgenza dei diritti di proprietà fra le tribù indiane, dedite alla caccia. Ne dedusse che la tutela dei diritti di proprietà è una faccenda costosa, che richiede istituzioni appropriate, le quali tendono ad emergere quando il gioco vale la candela. Non basta cintare un terreno perché quello diventi mio: la recinzione deve essere mantenuta in buone condizioni, qualcuno deve controllare che altri non la scavalchino, si deve sviluppare un sistema che consenta la possibilità di scambiare titoli di proprietà, accertandone pertanto la legittimità. Neanche questi pasti sono gratis. I diritti di proprietà servono a risolvere problemi ma perché vi si faccia ricorso è necessario che non comportino costi maggiori del beneficio, che non creino più problemi di quanti ne fanno superare. (*)
A Demsetz dobbiamo un'espressione efficacissima, la “fallacia del nirvana”. “L'approccio prevalente in molta economia che si occupa di politiche pubbliche afferma implicitamente che la scelta sia fra la norma ideale e l' esistente, imperfetta situazione istituzionale”. Come sappiamo bene, tutt'oggi agli innegabili difetti del capitalismo reale, per come ogni giorno vi prendono parte esseri umani in carne e ossa, si contrappongono regolarmente le meraviglie del socialismo per come potrebbe realizzarlo una burocrazia di cherubini. Demsetz diagnosticò la malattia nel 1969, per ora non ne siamo guariti.
(*) “Towards a Theory of Property Rights” è stato tradotto in italiano nel 1980, in un volume a cura di Enrico Colombatto (“Tutti proprietari”) per il Centro Einaudi di Torino.
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