Il grande Gualino
Primo capitolo
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Premessa
Il bello di questa storia è che, per quanto romanzesca possa sembrare, è tutta vera.
Sono veri i personaggi, veri i luoghi, veri gli avvenimenti.
Mi sono solo preso la libertà di intrecciarli e raccontarli a modo mio, in forma di sinfonia: quattro movimenti più un finale.
Primo Movimento, allegro con brio.
Secondo Movimento, prestissimo anzi frenetico.
Terzo Movimento, adagio patetico.
Quarto Movimento, andante cantabile.
Finale, allegro maestoso.
G.C.
PRIMO MOVIMENTO
Allegro con brio
Torino, 24 maggio 1959
«Bentornato a Torino, avvocato. Bentornata anche lei, signora.»
«Buongiorno a lei, cara dottoressa Gabrielli» sorridono Ric- cardo Gualino e sua moglie Cesarina.
«Come lei ha chiesto, avvocato, andiamo a fare un giro in macchina per Torino prima di arrivare alla Galleria Sabauda. C'è tutto il tempo: l'inaugurazione è a mezzogiorno e sono solo le nove e mezza» dice Noemi Gabrielli, soprintendente ai beni artistici del Piemonte, la prima donna nominata a tale incarico in Italia. Nell'ambiente tutti dicevano di lei: è una con quattro palle.
Riccardo Gualino è secco, elegantissimo nell'abito grigio ferro, capelli candidi pettinati con la riga, occhi chiari, magnetici, vi- vaci, profilo aquilino e la mascella leggermente squadrata.
Tiene in mano un bastone di ebano con il pomolo d'argento, ma non si appoggia.
Ha ottant'anni esatti, ma è dritto come un chiodo d'acciaio e ha il sorriso e lo sguardo di un diciottenne.
La moglie Cesarina è anche lei secca, ha anche lei la mascella squadrata, capelli divisi a bandeau e legati alla nuca. Sembra Gualino in versione femminile; una rassomiglianza quasi im- pressionante.
Non c'è da stupirsi: sono cugini.
Cesarina ha quasi settant'anni, ma nessuno lo direbbe perché il fisico è ancora lo stesso di quando, quarant'anni prima, danza- va con Raissa Gourevich e con Bella Hutter.
Indossa uno di quei tailleurs di Chanel che non hanno età.
È un giorno di una importanza storica: dopo quasi trent'anni si inaugura la sala della Galleria Sabauda che ospita i capolavori che sono tornati a Torino.
Si parla di opere d'arte come la Venere del Botticelli, il Ri- tratto di giovane di Lorenzo di Credi, la Venere con la tartaruga attribuita a Sebastiano Del Piombo, una Maestà di Cimabue e moltissime altre.
Ottanta capolavori della pittura dal Quattrocento in poi. Si parla cioè della Collezione Gualino.
Non tutta, perché era stata molto più vasta e ricca.
Ma è un gran risultato che, almeno in parte, sia tornata. La Collezione Gualino, già.
Riccardo e Cesarina sono appena scesi dalla scaletta di un qua- drimotore a elica Douglas dc4, che li ha portati da Ciampino all'aeroporto di Caselle.
Un'ora e mezza di volo fra Roma e Torino: una cosa im- pensabile fino a pochi anni prima. Il mondo era proprio cam- biato.
Non è da molto che le due città sono collegate per via aerea: l'aeroporto è entrato in funzione solo sei anni prima, e i torinesi non sono ancora abituati a vedere gli aerei.
Sono molti quelli che, negli orari di arrivo e partenza dell'ae- reo, si assiepano al di là della recinzione di rete di ferro. Ci sono bambini per mano a genitori e nonni; c'è qualcuno che lo guar- da quasi con antico timore, l'aereo: erano proprio quei quadri- motori lì che, non molti anni prima, si vedevano arrivare in stor- mo sopra la città per bombardarla, mentre le sirene urlavano di scappare, di scendere nei rifugi. Era un suono agghiacciante.
«Quando lo hai sentito una volta, non lo dimentichi più.
Am vèn ancura sgiai» dicevano i torinesi che avevano vissuto quei momenti.
E tutti correvano nei rifugi in cantina, ci stavano per un tem- po infinito stretti uno all'altro mentre sentivano tremare la terra fra boati attutiti e spaventosi, pensando “adesso tocca a noi”; e poi quando uscivano, se uscivano, vedevano case distrutte e macerie dappertutto.
E respiravano odore di polvere e di bombe.
«Prego…» dice la Gabrielli indicando la panciuta Fiat Mil- lenovecento nera e scintillante, mandata dal sindaco Amedeo Peyron in persona, che è lì ad aspettarli con la portiera po- steriore tenuta aperta da un autista in abito blu scuro. All'oc- chiello, lo scudetto con l'emblema della Città di Torino, un toro rampante oro su campo azzurro coronato, risplende ai raggi del sole.
Gualino offre il braccio alla moglie con un gesto degno di Fred Astaire.
«Anduma, baby?» le dice sorridendo.
Aveva incominciato a chiamarla baby durante il loro primo viag- gio in America, a New York, prima della prima guerra mondia- le: quel viaggio che aveva consentito a Gualino di dare una svol- ta transoceanica ai suoi affari, a Cesarina di scoprire i grattacieli e l'arte moderna, e a tutti e due di innamorarsi di quella strana e inaudita musica che chiamavano jazz.
Cesarina, ricambiando il sorriso, accetta il braccio con un gesto degno di Anna Pavlova.
«Puduma andé, grassie.»
Hanno visto mezzo mondo, sono vissuti nei posti più diversi e più belli, hanno conosciuto le persone più importanti della Terra, ma fra loro si sono sempre parlati in piemontese.
Anche adesso che sono sposati da cinquantadue anni. Da quel lontano 1907.
1
Casale Monferrato, 8 settembre 1907
Dopo il sì, dopo la benedizione, gli sposi erano adesso fuori dalla chiesa, sul sagrato, fra gli evviva e gli auguri dei parenti e degli amici.
Di solito, nei matrimoni normali, la gente lancia il riso. In quello, no: non erano chicchi di riso, erano monetine da un cen- tesimo. Migliaia di monetine. Brillavano nel sole caldo dell'aria ancora estiva: un po' grassa, un po' umida, un po' greve; aria da pianura ricca.
Ricadevano sugli sposi che ridevano come matti e facevano finta di ripararsi da quella pioggia di soldini luccicanti.
Battevano sul pavimento del sagrato con gioiosi tintinnii che si mescolavano ai garriti di mille rondini che sfrecciavano per andare a ingozzarsi di zanzare sulla riva del Po.
Tutti gli invitati gridavano allegramente agli sposi: «Lunga vita! Prosperità!».
Il vecchio prete con i paramenti da festa, fermo sulla soglia del portone della chiesa guardava la scena con un mezzo sorriso sul faccione ben nutrito. Cercava di non esprimere la riprovazione per quel matrimonio che volente o nolente aveva celebrato, lo stupore per la quantità di monetine che cadevano a terra, la pre- occupazione che i chierichetti le raccogliessero tutte.
La sposa è una ragazzina: ha diciassette anni.
Indossa un tubino semplice lungo fino ai piedi; il velo è fis- sato sulla fronte da un nastro di raso bianco che scende fin quasi alle sopracciglia, secondo la moda del tempo, gli occhi sono grandissimi e scuri. Occhi da gazzella selvatica qualcuno li avreb- be definiti molti anni dopo.
Anche se l'abito è sobrio, la collana di perle che le cinge il collo in quattro spire e poi scende fino alla vita, però, la dice lunga sul fatto che la sposa proviene da una famiglia molto benestante, i Gurgo Salice.
Lei è Cesarina. Cesarina Gurgo Salice.
Lo sposo ha un sorriso ben diverso da quello del prete. È come quello di un falco, con gli angoli del becco leggermente piegati all'insù. L'effetto è che sembra sorridere sempre. Ha lineamen- ti sottili, capelli biondi fini pettinati con la riga, abito di gran taglio e cravatta di seta grigio argento. Ha occhi acuti, vivaci, brillanti come pietre dure.
Si vede subito che lui è più grande di lei, infatti ha ventotto anni. Lui è Riccardo. Riccardo Gualino.
Solo a guardarlo, si capisce che è biellese.
***
Un biellese è uno strano distillato: da un lato è un amministra- tore oculato fino al limite della taccagneria, da un altro è un esploratore audace, un imprenditore coraggioso, un pioniere.
Per biellese non si intende solo quello nato in città: sono biel- lesi anche quelli delle valli come la Valle Mosso, la Valle Cervo, la valle di Oropa e le altre.
Tutti biellesi.
Sono stati capaci di creare i lanifici che producono i più ap- prezzati tessuti del mondo.
«Per fare i tessuti migliori, ci vogliono le lane migliori» han- no capito da un secolo; forse anche di più. E si sono mossi per il mondo in un'epoca in cui ogni viaggio era una vera avventura.
Viaggiano e comprano le lane più preziose come il cashmere del Tibet e della Mongolia, l'alpaca della Bolivia, il mohair della capra d'Angora della Turchia, il merino della Tasmania e della Nuova Zelanda.
Quelle lane diventano tessuti negli stabilimenti delle valli biellesi che sono sempre stati il massimo della tecnica e dell'ef- ficienza.
Quei tessuti, poi, vanno a vestire la clientela più esigente dei quattro continenti. Sono apprezzati e venduti persino a Londra, in barba al fatto che gli inglesi dicano di essere loro a produrre i migliori. No: quelli biellesi sono più morbidi, eleganti, sobriamen- te preziosi e sono consigliati dai più celebri sarti del mondo ai loro ricchi clienti.
***
Lì davanti alla chiesa i Gurgo Salice e i Gualino costituiscono una piccola folla perché i Gualino, già di loro, sono papà, mam- ma e nove figli con consorti e figlioletti. Tutti elegantissimi e festanti.
I Gurgo Salice sono meno: papà Tancredi, mamma Pieri- na con i fratelli più piccoli di Cesarina, Piergiuseppe, che tutti chiamano Beppe, ed Ermanno.
Però fanno una gran baraonda; forse perché, pur essendo biellesi, abitano a Casale Monferrato. I casalesi sono gente più espansiva dei biellesi.
Si assomigliano tutti, i Gualino e i Gurgo Salice. Tancredi Gurgo Salice, il papà della sposa, è cugino dello sposo; quindi c'è una consanguineità diretta.
«Ma vi rendete conto?» aveva detto il prete qualche mese prima, quando i futuri sposi si erano presentati in chiesa per le pubbli- cazioni «siete consanguinei! ci vorrebbe una dispensa papale!»
Si era voltato per far finta di trafficare nella sacrestia.
«Date retta a me…» continuò «… ripensateci. Siete giova- ni… fate ancora in tempo a cambiare idea.»
«Cambiare idea noi, don Dino?» aveva detto Cesarina cer- cando di controllarsi «mai e poi mai. Ce lo siamo giurato.»
Aveva sempre avuto un carattere molto deciso: se voleva una cosa, la voleva. Non faceva capricci: la voleva e basta. Fin da quando era bambina.
«Vede, reverendo, ci rendiamo conto che potrebbe esserci qualche problema e sappiamo che la cosa non è semplice» era intervenuto diplomaticamente Gualino con quel suo sorrisino che forse non era un sorriso, ma solo un suo modo di atteggiare la bocca.
Il prete lo guardò meglio, quasi stupito dalla voce di quel ragaz- zo magrolino ed elegante: una voce profonda, melodica, pacata ma autorevole.
Non molto alto, era perfettamente proporzionato e aveva due mani molto chiare, sottili ma piene di energia: pareva par- lassero.
Don Dino aveva sentito dire che, con i suoi affari, era già diventato vergognosamente ricco.
Guardandolo incominciò a capire come mai, a Casale Mon- ferrato, in molti parlavano con ammirazione di lui: del giovane avvocato Riccardo Gualino.
«È uno che è già stato in mezzo mondo…», «Ha già gua- dagnato più di un milione… È il più grande commerciante di legname di tutta Europa… E anche di cemento…»
«È cugino dei Gurgo Salice, uno dei cugini di Biella…»
«Ecco…» riprese Gualino con quella sua voce prendendo una busta bianca e corposa da una tasca interna della giacca. «Intan- to, Cesarina ci terrebbe molto che le musiche del matrimonio fossero eseguite da un organo come si deve. Lei lo sa, quanto ama la musica.»
Il prete annuì. L'aveva vista crescere e sapeva che i Gurgo Sali- ce, stimati industriali, erano anche grandi appassionati di musi- ca classica e ognuno suonava bene qualche strumento.
«E, ahimè, l'organo della parrocchia è un po' sfiatato e stona- to» proseguì l'aspirante sposo tessendo la sua tela.
Il prete annuì nuovamente, con un'espressione molto triste.
«Bene…» andò ancora avanti Gualino spingendo la busta verso di lui attraverso il tavolo. «Questo dovrebbe bastare per un organo nuovo. Se avanza qualcosa, lei saprà come distribuir- lo ai poveri.»
Don Dino soppesò la busta, aprì l'aletta, diede una sbirciata dentro e spalancò gli occhi.
«E questo…» disse poi Gualino con lo stesso tono tranquillo prendendo un'altra busta da un'altra tasca «servirà alla Curia per le indispensabili spese per andare avanti e indietro da Roma a perorare presso il Santo Padre una dispensa rapida, se occorre.» Si schiarì la voce, che diventò impercettibilmente più decisa, quasi autoritaria: con quei suoi occhi penetranti, con quel viso affilato ma gradevole, con quelle sue mascelle ben disegnate, era uno che incuteva rispetto.
«Avremmo deciso di sposarci l'8 settembre prossimo, reve- rendo: dovrebbe esserci tutto il tempo, neh?» disse. Poi, alzan- dosi, concluse soavemente: «Siamo nelle sue mani».
«Grazie, Don Dino!» gli sorrise Cesarina senza lasciargli il tempo di fiatare. «Lo sapevamo che potevamo contare sulla sua benedizione.»
Erano usciti sottobraccio dalla sacrestia, lasciandolo basito.
***
Il tavolo da pranzo del ristorante dell'Hotel Leon d'Oro, una elle che occupa tutta la sala, è imbandito per le grandi occa- sioni: tovaglie ricamate, posate di argentone pesante, bicchieri scintillanti.
Tancredi Gurgo Salice è ricco: Casale Monferrato è la città dei cementifici, e lui è uno dei cementieri più importanti.
Può spendere; e lo fa volentieri, per quella figlia che ama moltissimo. In più, è obbligato a fare bella figura.
Il menu, che ha concordato personalmente con il proprieta- rio dell'hotel, è un trionfo della cucina casalese.
«Ancora due acciughe al verde?» chiede il cameriere con il vassoio in mano passando con uno dei quattordici antipasti.
«Un po' di trifula sui tajarin?» chiede poi il maître in perso- na passando da un commensale all'altro seguito da un commis che tiene un vassoietto colmo di meravigliosi tartufi bianchi.
«Sono i primi della stagione… sarà una grande annata…» dice tagliando personalmente le leggere scaglie con un affetta- tartufi d'argento.
E avanti così, fra agnolotti al sugo di lepre e consommé royal, fritto misto alla piemontese e fagiano arrosto: fino alle cinque del pomeriggio.
«Ma allora, cos'è la storia delle monetine? T'im la cunte?» chiede Cesarina a Gualino appena trova il momento di farlo.
Fra loro si parlavano spesso in piemontese, anche se il loro italiano era perfetto. Si divertivano a farlo, era un gioco.
«T'im la cunte? Me la racconti?» Gualino ride.
«Të spiegu. Ti spiego» e assume scherzosamente l'atteggia- mento di un docente. «Al to preive, il tuo prete, l'ultima volta che l'ho visto per pagarlo, pretendeva altre duecento lire oltre quello che avevamo stabilito. Che era già una bella cifra! As fa nèn parèj… Non si fa così…»
«E tu?»
«Io gli ho detto che lì non le avevo (non era vero) e che gliele avrei fatte avere. Adesso le ha, le duecento lire: ma a modo mio! In monetine da un centesimo! Quell'arpagùn!
Cosa credevi? Non sono mica uno che butta via tutti quei soldini!»
***
Il vagone blu della Compagnie Internationale des Wagons Lits scintillava sul primo binario della stazione di Torino Porta Nuo- va. Già da fuori sapeva di lusso e di comodità, con quelle filet- tature in oro e, sulle porte, il marchio, sempre in oro: due leoni rampanti racchiusi in un elegante cartiglio fronzuto.
Gli sbuffi bianchi di vapore dell'imponente locomotiva in te- sta al treno invadevano il marciapiede.
«Bentornato, avvocato Gualino!»
Era ormai un viaggiatore ben conosciuto. Gli addetti ai vago- ni letto apprezzavano molto il suo saper essere esigente, gentile e generoso con le mance.
Il capotreno indossava un frac blu bordato in oro come il che- pì che portava in testa. Fece un leggero inchino anche a Cesarina. La nuova coppia Gualino era seguita da due carrelli di ba- gagli spinti dai facchini; un baule e due valigie per lui, di cuoio marrone, già molto usati e costellati di etichette di grandi alber- ghi di mezza Europa; un baule e quattro valigie per lei, di cuoio
rosso, nuovi di pacca.
«Ci siamo appena sposati» gli disse Gualino sorridendo e porgendogli i biglietti.
«Auguri e figli maschi!» rispose il capotreno guardando i biglietti. «Costantinopoli!» commentò con un fischio som- messo. «Grazie degli auguri!» gli rispose Cesarina dandogli la mano «anche a lei e alla sua famiglia… A che ora arriviamo a Parigi?»
«Domani a mezzogiorno, signora. Non sono previsti lavori o problemi lungo la ferrovia e il tempo è buono. Arriveremo giusti perché possiate prendere la coincidenza. Vi accompagno, prego» rispose mentre i facchini caricavano i bagagli.
Fece loro strada lungo il corridoio ed estrasse una chiave do- rata dal taschino del panciotto grigio perla.
La suite era un vero e proprio piccolo appartamento: salot- to con due comode poltrone e tavolino per la colazione, bagno elegante e completo, camera con un grande letto matrimonia- le. Le pareti rivestite di radica creavano un ambiente caldo e lussuoso.
Erano abituati a viaggiare: Cesarina, cosa strana per quei tempi, era stata mandata diverse volte in Inghilterra e in Francia per imparare l'inglese e il francese. Gualino, per il suo lavoro, aveva già viaggiato in mezzo mondo.
***
Era venuto via da Biella alla fine del liceo classico, che aveva finito un anno prima del tempo: voleva lavorare subito, e non con il padre.
Giuseppe Gualino, suo padre, aveva messo su a Biella una piccola industria di oreficeria che funzionava bene e gli aveva consentito di mantenere agiatamente la famiglia. Però il giovane Riccardo si rendeva bene conto che nell'azienda di famiglia c'e- ra poco spazio per lui: era l'ottavo figlio, e ci lavoravano già tutti i suoi fratelli più grandi.
«Farà il professore di Lettere; legge in continuazione e scrive benissimo» diceva mamma Rina.
Ma la cosa non lo attirava affatto.
«Puoi andare a Genova da Marta» gli aveva poi detto lei. Una delle sorelle di Riccardo, Marta, aveva sposato Attilio Ba- gnara, che aveva una bella azienda di importazione di legno.
«Potresti andare all'università e intanto lavorare da lui.»
E così aveva fatto: si era trasferito a Genova alla fine del 1896.
Attilio Bagnara è un duro che avrebbe fatto volentieri a meno di avere fra i piedi quel cognato da svezzare: lo mette a copiare le lettere commerciali, ad archiviarle con precisione; in meno di un anno Gualino fa il lavoro di due impiegati.
Poi lo sposta alla segheria, dove lui impara a distinguere l'a- bete dal pino, il faggio dal pioppo, il noce dal rovere, il frassino dall'olmo; impara a selezionare i travi da trasformare in tavole: impara a segnare con il gesso le giuste linee di taglio; impara a gestire i segantini che sono sempre pronti a litigare.
Nella cameretta che Bagnara gli ha messo a disposizione accanto alla segheria, Gualino legge moltissimo, studia, pensa. Scrive anche qualche poesia, come ha fatto fin da ragazzino, cer- cando di imitare Carducci o D'Annunzio.
Ma non è certo un eremita. Grazie al suo entusiasmo e alla sua educazione incomincia a farsi i primi amici, che lo accolgo- no volentieri nelle loro case. I Piaggio, ad esempio, che hanno i cantieri e le officine per i vagoni ferroviari.
Quando ha qualche soldo va in centro a Genova, al teatro dell'opera, in loggione.
Ha bisogno di musica. Verdi, Puccini, Mascagni; ma soprat- tutto Rossini. Quei crescendo travolgenti gli entrano in petto e sembrano esprimere tutta l'energia esplosiva che sente in sé.
Ha appena compiuto ventun anni. È libero di fare la sua vita e vuole farla.
«Senti, Attilio: sono qui già da quattro anni e mi dai cinquanta lire all'anno. Me le fai anche aspettare, a volte.»
«Dovresti ringraziare, con tutto quello che ti ho insegnato. Anzi, forse dovresti essere tu a pagarmi. Non fosse per tua so- rella Marta…»
«Ti propongo una cosa: io vado in giro a vendere il tuo legna- me e tu mi dai uno stipendio, anche basso come adesso, e in più mi paghi le provvigioni così posso guadagnare un po' di più.»
«Di stipendio non se ne parla nemmeno. Solo provvigioni.»
Incominciano a discutere; la trattativa è snervante, come solo può essere fra un genovese e un biellese.
Alla fine riescono a mettersi d'accordo.
«Però le provvigioni me le paghi subito, neh?» E così Gualino aveva incominciato a viaggiare.
Nessuno avrebbe mai capito, anni dopo, se si fosse laureato o meno. Il suo successo e la sua cultura avevano reso il suo titolo di studio un dettaglio.
Gualino aveva evitato anche la coscrizione di leva: due anni di servizio militare obbligatorio, che sarebbero stati una gran perdita di tempo. Era bastato pagare un sottufficiale sanitario, per essere congedato per insufficienza toracica.
Vendendo il legname di Bagnara aveva incominciato a guada- gnare un mucchio di soldi.
Era un venditore straordinario, competente, che sapeva con- quistare la fiducia dei suoi clienti.
Ben presto, guardandosi intorno, aveva anche capito che c'e- rano altri importatori di legname, c'erano altre segherie che gli davano provvigioni molto più alte.
Aveva continuato a vendere il legname di Bagnara, ma anche quello di altri fornitori, magari facendolo arrivare direttamente dalla Slovenia o dalla Carinzia.
Bagnara era andato su tutte le furie.
«Mi hai fregato i clienti, vipera infame! Serpe in seno!»
«Piano, Attilio, te lo sei voluto tu. Ti avevo proposto di pren- dermi a stipendio più provvigioni, no? In quel caso sarei sta- to un tuo dipendente. Così, invece, non ho nessun obbligo di esclusiva e vendo ai clienti quello che va meglio per loro» gli aveva detto lui senza alzare la voce.
«E per te!»
«E per me, certo. È un delitto?»
«Ti faccio causa!»
«Fai pure quello che vuoi» e se ne era andato.
Aveva incominciato a vendere “in proprio” legnami ai can- tieri navali, ai Piaggio per primi, poi ai Perrone della Ansal- do, poi a quelli di Orlando a Livorno; ormai erano tutti suoi clienti. Qualcuno, come Eddy Piaggio, era diventato un vero amico.
In quei primi del Novecento, da quando tutta Italia era un maggio e Margherita era il suo fiore, i cantieri fiorivano dapper- tutto.
La regina Margherita e re Umberto andavano avanti e indietro a inaugurare scuole e ospedali, colonie estive, interi quartieri.
Gli impresari edili facevano affari colossali. C'era fame di materiali da costruzione.
Gualino aveva già un'idea su come muoversi per raggiun- gere le imprese più importanti e procurarsi i capitali necessari per acquistare in contanti ai prezzi migliori. Per poi rivendere a prezzi quasi triplicati. Sapeva quale strada doveva percorrere per fare in modo che gli si aprissero grandi orizzonti finanziari in tutto il mondo.
***
Nel mezzo della valle Cervo, a pochi chilometri da Biella, c'è un paesino che si chiama Rosazza. Lo aveva costruito (o me- glio ricostruito) Federico Rosazza Pistolet, un facoltoso impre- sario edile; uno dei molti di quella valle che operavano in mezzo mondo. La valle Cervo è una valle di costruttori.
A Rosazza, ogni edificio costituisce il più impressionante concentrato di simboli che si possa immaginare. Rosazza era or- mai morto, ma Gualino sapeva chi era subentrato al suo posto al vertice della massoneria.
Aveva fatto un salto a Biella, aveva salutato i suoi, aveva in- contrato chi sapeva lui, e poi era andato dritto dritto a Londra. Ne era tornato con nuove preziose conoscenze e con una grossa apertura di credito alla Hambros Bank.
Incominciava ad avere le spalle larghe. Hambros Bank sareb be stata solo la prima delle tante banche che gli avrebbero dato credito negli anni futuri.
***
Gualino comprava e vendeva partite immense, il suo legname viaggiava su interi treni merci, su interi bastimenti. Arrivava in mezza Europa. Anche in America.
Aveva incominciato ad accumulare una fortuna. E aveva solo venticinque anni.
«Va bene, il commercio di legname è molto remunerativo… ma un sistema ancora più redditizio sarebbe quello di partire dall'origine» aveva detto un giorno al suo grande amico Gau- denzio Sella. Erano amici sin da bambini ed erano cresciuti in- sieme, a Biella.
Altra grande tradizione biellese, oltre a quella di fare tessuti: fa- re quattrini. E saperli amministrare con accortezza, come i Sella. Quintino Sella era passato alla storia come il primo, e forse unico, ministro delle finanze italiano che, con la sua «politica del- la lesina», era riuscito a evitare il fallimento dello Stato. Era stato un fondatore di Banche: nel 1865 aveva proposto la fondazione della Banca d'Italia; sotto il suo patrocinio, quando lui era stato ministro, nel Biellese, erano nate varie banche per favorire l'in- dustria, il commercio e l'artigianato. Nel 1869, d'accordo con il fratello Giuseppe Venanzio, aveva fondato la Banca Biellese.
Giuseppe Venanzio, altro genio delle finanze, aveva una vi- sione modernissima della finanza bancaria, perché riteneva che fosse essenziale agevolare l'afflusso dei risparmi, oculatamente, verso gli investimenti industriali. Suo figlio Gaudenzio era an- dato avanti con i suoi principi e li aveva poi consolidati. Metten- dosi insieme ad altri sei Sella fra fratelli e cugini, nel 1866 aveva costituito la Banca Sella.
«Partire dall'origine? Cioè?» aveva chiesto Gaudenzio con in- teresse.
«Cioè dalle foreste: comprando foreste e tagliandole» gli aveva spiegato Gualino.
Era così partita, con capitali della Banca Sella e di altri finan- ziatori trovati tramite la Hambros Bank, “l'operazione Conca”.
«È una foresta enorme, nel sud della Corsica, sulla sponda tirrenica, così i costi di trasporto saranno minimi. Sarà un'ope- razione molto remunerativa.»
Erano andati in Corsica, Gualino e i finanziatori, avevano visto l'immensa foresta da comprare, avevano interpellato i massimi esperti silvicoltori.
«… oltre al pino nero endemico, al pino marittimo, al leccio sensile e al leccio pubescente, al tasso, al faggio, all'abete, al cedro, abbiamo una presenza imponente di castagni impiantati dai genovesi nel diciottesimo secolo.»
Erano alberi enormi che Gualino e soci già vedevano trasfor- mati in migliaia di tavole di legno pregiato, cioè in una monta- gna di soldi.
L'operazione era partita: avevano creato una società, aveva- no comprato le centinaia di ettari più lussureggianti di grandi alberi centenari.
Gualino aveva assunto l'ingegner Neri, un genovese con grande esperienza di taglio dei boschi e di lavorazione del legno grezzo, che aveva messo insieme una squadra di lavoro.
«La segheria la impianteremo lì. Bisogna prima di tutto di- sboscare una striscia e creare una strada carrabile per portare i tronchi appena abbattuti. Poi faremo un'altra strada attraverso il bosco che arrivi al porto: qui». Aveva detto indicando il punto sulla carta topografica. «Imbarcheremo il legname già lavorato e lo sbarcheremo qui, a Civitavecchia» aveva poi spostato il dito.
«Quale è la distanza?» aveva chiesto qualcuno.
«Centodieci miglia nautiche, una bazzeccola.» Alla fine aveva convinto tutti i finanziatori.
E, grazie alla perfetta pianificazione e alla certezza fornita dal capitale di cui l'iniziativa disponeva, i primi lavori avevano avuto inizio.
Era stato un momento non facile, qualche mese dopo, quello in cui Gualino era andato da Gaudenzio.
«Abbiamo avuto un problema, là a Conca» gli aveva detto.
«Dimmi».
«È un problema un po' particolare…»
«Risolvibile?»
«Temo di no.»
«Vuole dire che il nostro investimento è a rischio?»
«Be'… ci rimane pur sempre il valore dei terreni.»
«Cosa significa: che ci sono dei problemi a tagliare il bosco?»
«Già».
«Spiegami».
«Il problema è che abbiamo fatto i conti senza i còrsi.»
«Cioè?»
«Non vogliono che noi tagliamo la foresta. Hanno delle teste un po' particolari, sai? Pensa a Napoleone Bonaparte…»
«Dài, raccontami tutto.»
«Be'… fin da subito ci sono state delle azioni di sabotag- gio da parte della popolazione locale. L'ingegner Neri, però, è andato avanti superando le varie difficoltà ambientali. Fin-ché…»
«Finché?»
«Non è facile raccontarlo. Be'… lo hanno preso in quattro o cinque, gli hanno strappato i pantaloni, e…» e con la massima eleganza che gli era consentita dall'argomento, chiuse il pugno della mano destra, piegando un po' il polso in modo che le noc- che rimanessero verso l'alto, e lo mosse due o tre volte avanti e indietro con un movimento da stantuffo.
«Ma dài…» disse Gaudenzio spalancando gli occhi. Gualino annuì tristemente.
«L'ingegner Neri…» proseguì Gaudenzio. «Non mi dire… Ma proprio…?» e ripeté anche lui il gesto.
Gualino spalancò le braccia. L'operazione Conca era stata un vero disastro.
«È chiaro che, amicizia a parte, di fare affari con Gualino non se ne parla più, neh? Quelli che abbiamo già avviato, onoriamoli. Ma poi basta» si erano detti tutti i Sella riuniti in consiglio di amministrazione. E così sarebbe stato.
Ma Gualino aveva ben altre risorse: aveva già acquisito altri ca- pitali per acquistare foreste nei Balcani e nell'Europa orientale.
Inoltre, aveva capito al volo che, oltre al legno, c'era un altro materiale da costruzione che stava entrando prepotentemente alla ribalta del mondo delle costruzioni: il cemento.
Fino ad allora era usato solo per legare mattone a mattone, per intonacare, per fare qualche marciapiede.
Proprio nel quinquennio tra fine Ottocento e inizio Novecen- to era stata messa a punto una tecnologia rivoluzionaria che apri- va un nuovo mondo alle costruzioni: era nato il cemento armato. Stava anche diffondendosi il calcestruzzo compresso, cono- sciuto già dall'antichità ma poco utilizzato fino a quel momento.
La domanda di cemento era esplosa.
Gualino, ormai ben introdotto in grandi imprese, era riu- scito a parlare con alcuni degli ingegneri più preparati; voleva sapere tutto, con una curiosità irresistibile, per conoscere nei minimi dettagli di quali cementi avrebbe avuto bisogno quel nuovo immenso mercato.
Casale pullulava di cave e di piccoli cementifici, che però non sarebbero stati in grado di affrontare e soddisfare quell'enorme domanda.
Casale era in un punto del Piemonte ben collegato con Genova, con Torino e con Milano: poteva essere una buona base operativa. Gualino aveva preso in affitto un bell'appartamento vicino alla casa di Tancredi e si era trasferito lì.
«Potresti organizzare una riunione con gli altri cementieri?» aveva chiesto a Tancredi. «Mi piacerebbe avere la possibilità di parlare con loro. Ho una certa idea in testa.»
Erano tutti seduti intorno a lui, che stava a un tavolino minu- scolo. Aveva appoggiato le mani sul piano, ben distanti una dall'altra.
«Siete tutti come cagnolini sciolti, uno che abbaia all'altro per difendere la sua ciotola» aveva detto. «Il mercato è già gran- de; diventerà immenso. Nessuno di voi sarebbe in grado di af- frontarlo da solo. Mettetevi tutti insieme, facciamo una grande società per azioni e coordiniamo la produzione e le vendite di tutti i cementifici. Ognuno rimane indipendente, ma conferisce il prodotto a questa nuova società di cui tutti hanno quote in ba- se al fatturato attuale. Io, di mio, ci metto tutti i soldi che ho. Ci sarà ciccia per tutti» aveva concluso con quel sorriso misurato e gradevole che sapeva conquistare chiunque.
«Io ci sto» aveva dettoTancredi.
«Anche io» aveva affermato un altro.
«Anche io» un altro ancora.
Gualino aveva appena creato l'Unione Italiana Cementi, l'unicem, il primo grande colosso del settore.
Ed era diventato socio di Tancredi, il suo caro cugino-amico che sarebbe anche diventato suo suocero.
***
Strana storia, quella di Gualino e di Cesarina. Quando lui si era trasferito a Casale Monferrato, lei aveva quindici anni e si era su- bito presa una cotta tremenda per quel suo cugino più grande.
Lui l'aveva guardata un po' dall'alto al basso, poi se ne era accorto. Aveva visto un fiorellino che stava sbocciando e aveva incominciato ad amare tutto di lei: la sua intelligenza, la sua al- legria, i suoi sconfinati interessi per l'arte, per i libri, il suo modo di suonare il pianoforte, la sua voce.
Era andata così.
Poco più di un anno dopo, lei gli aveva detto: «Mi sposi?». Lui aveva detto sì.
Avevano incominciato a sognare la loro vita insieme.
«Me lo compri un castello?»
Non era una domanda così assurda.
Dopo l'Esposizione Universale di Torino del 1884, era esplosa la moda del neomedievismo e del neogotico.
Il Borgo Medievale, un villaggio costruito dall'architetto D'Andrade prendendo spunto da vari castelli della Valle d'Ao- sta e del Piemonte, aveva scatenato gli entusiasmi.
In tutta Italia si costruivano castelli; stava diventando una vera mania, per chi aveva i quattrini, avere un castello in città o sulle colline. Palazzoni di paese e grandi cascinali venivano trasformati in castelli turriti e merlati. Qualcuno, ancora più turrito e ancora più merlato, veniva costruito ex novo. Erano tutti neoqualcosa. Potevano essere neomedievali, neogotici, ne- oromanici, neorinascimentali.
Il Monferrato pullulava di castelli.
Quando erano insieme, lui e lei, progettavano il loro castello.
Cesarina disegnava benissimo, mentre Gualino non sapeva tenere una matita in mano.
«Quella torre la farei un po' più alta» diceva lui, e lei prende- va la gomma e correggeva la torre.
«Quelle finestre lì le farei a bifora» e lei disegnava le bifore.
«Lì ci metterei un porticato con archi a sesto acuto.»
«No, a sesto acuto non ci stanno bene, io li farei a tutto sesto.»
«Ma va': devono essere a sesto acuto!»
«E io non li disegno.»
«E va be', falli a tutto sesto!»
«E le merlature? Guelfe o ghibelline?»
«Guelfe.»
«No, ghibelline, sono più belle, a coda di rondine; e poi sono più comode, per buttare l'olio bollente sugli assalitori.»
Un gioco: quello di una ragazzina e di un giovanotto inna- morati.
«Dove lo facciamo?»
«Su una collina da cui si veda tutto il Piemonte. E anche le montagne.»
Su una cosa erano d'accordissimo: «Il nostro sarà il più turrito e il più merlato di tutti».
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