Il grave errore di presentarsi come tuttologi, camaleonti del sapere
La stragrande maggioranza dei nuovi “matrimoni professionali” non nasce dagli annunci ma da referenze, networking, incontri informali e spesso casuali
di Lorenzo Cavalieri *
4' di lettura
Chi si occupa di selezione del personale conosce molto bene l’irrefrenabile impulso della maggioranza dei candidati a presentarsi come persone di multiforme ingegno: “Attualmente rivesto il ruolo di x, ma le competenze acquisite mi mettono nelle condizioni di occuparmi anche di y. Ho maturato esperienze qualificate e importanti in ambito z”. Questo atteggiamento “tuttologico” è ben visibile in tutte le vetrine professionali: curriculum, lettere di presentazione, profili Linkedin, colloqui di lavoro. È frutto di una combinazione di fattori diversi. Da un lato sopravvalutiamo le nostre capacità, dall'altro ci lasciamo dominare dall’ansia di “andar bene” a tutti i costi, immaginando che promuovendo la nostra polivalenza le opportunità si moltiplichino.
Soprattutto spesso e volentieri non riusciamo a rispondere ad alcune domande fondamentali: in quale ambito professionale senti di essere davvero “speciale”? Qual è lo spazio lavorativo dove ciò che sai fare bene si coniuga con ciò che ti piace fare e con ciò di cui gli altri (clienti o datori di lavoro) hanno bisogno? Sono davvero in pochi a saper rispondere con precisione e fermezza a questo tipo di sollecitazione. La conseguenza è che oscilliamo al vento delle opportunità e ci ritroviamo a candidarci la sera per un ruolo amministrativo, e la mattina dopo per un ruolo commerciale, magari riadattando alla meglio il CV.
Quando adottiamo questo tipo di approccio alla ricerca di un nuovo lavoro evidentemente perdiamo la capacità di metterci nei panni di chi valuterà le nostre candidature. Cosa penseresti di qualcuno che ha risposto al tuo annuncio per un responsabile di qualità se scoprissi che nel suo CV ci sono prevalentemente esperienze nel marketing? Cosa penseresti di qualcuno che ti ha scritto per candidarsi in area risorse umane se scoprissi che su Linkedin si presenta come consulente informatico? Se fossi un allenatore di calcio e avessi bisogno di un centrocampista sceglieresti qualcuno che si definisce centrocampista o qualcuno che si definisce centrocampista, ma anche terzino, ma anche mezza punta?
Evidentemente nel mondo del lavoro esiste un malinteso relativamente al concetto di flessibilità, una parola molto amata nel mondo delle risorse umane. Compare in quasi tutti gli annunci, è sulla bocca di tutti i manager, spadroneggia nel 99% dei curriculum. Ma flessibilità non significa avere più identità. Significa al contrario avere un’identità molto precisa che tuttavia possiamo adattare all’occorrenza. La differenza tra le due interpretazioni è sottile ma sostanziale: sono un centrocampista che all’occorrenza può adattarsi a fare il terzino o la mezza punta. Questo non significa che io sia insieme un centrocampista, un terzino e una mezza punta.
Molti organizzano male il proprio progetto di ricerca di un nuovo lavoro perché antepongono la riflessione sul mercato alla riflessione su se stessi. Non partono dalla domanda “qual è la mia identità professionale?”, ma dalla domanda “cosa cerca il mercato”? Se quindi la “variabile guida” sono gli altri finiamo con il perderci in una battaglia impossibile per assomigliare a tutti i costi a ciò che gli altri desiderano.
Eppure l’esperienza di vita, non solo professionale, dovrebbe aver insegnato a ciascuno di noi che “venderci” per ciò che non siamo non moltiplica le nostre opportunità, ma aumenta se mai la nostra frustrazione. Difficile a questo proposito non pensare alle dinamiche della seduzione sentimentale. Nei momenti della nostra vita in cui ci sentiamo più confusi e meno sicuri cerchiamo disperatamente di “assomigliare ai gusti” del nostro spasimato/a, di adattare i nostri comportamenti alle esigenze altrui, in modo da poter piacere sempre, a tutti i costi.
Il risultato anche in quest’ambito è l’inseguimento continuo di un modello che non riusciamo mai a incarnare perfettamente, semplicemente perché proviamo ad essere qualcosa che non siamo e ci ritroviamo perennemente inadeguati, e dunque frustrati. Mutatis mutandis è quello che succede nella nostra corsa alle job description. Esaminiamo gli annunci e constatiamo di non essere mai il candidato perfetto. Ci manca sempre qualcosa. E allora proviamo a ritoccare la nostra storia sul CV, su Linkedin e dove ci è possibile, a tirarla di qua o di là per essere ciò che gli altri desiderano.
Un maquillage penoso di cui spesso non ci rendiamo neanche conto. Come negli altri ambiti della vita anche nei progetti di ricollocazione professionale vinciamo quando siamo noi stessi, centrati, consapevoli della nostra identità e della nostra storia, decisi a valorizzare i nostri punti di forza senza temere di essere “scartati” a causa dei nostri punti di debolezza.
In questa prospettiva dobbiamo prendere atto che per la maggior parte di noi impostare la ricerca di un nuovo lavoro sulla consultazione degli annunci è una strategia frustrante e inefficace. Ci confrontiamo con un modello inarrivabile che ci costringe a “truccarci” continuamente, illudendoci di avere tante identità professionali, quando invece ne possiamo avere solo una alla volta.
Gli annunci di lavoro sono sopravvalutati. Veicolano solo una piccola percentuale dei nuovi inserimenti nel mercato del lavoro. La stragrande maggioranza dei nuovi “matrimoni professionali” nasce invece da referenze, networking, incontri informali e spesso casuali. Ecco perché è importante smettere di presentarsi come tuttologi, mettere in vetrina un’unica identità professionale, molto ben definita, e con quella andare a contattare proattivamente solo quei pochi che potrebbero davvero aver bisogno della nostra “unica” identità professionale.
* Managing Partner della società di consulenza e formazione Sparring
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