Il Jobs Act ha fallito nel suo obiettivo principale
È ora di indirizzare il mercato del lavoro verso una struttura più razionale attraverso al detassazione dei contratti a tempo indeterminato
di Cesare Damiano
2' di lettura
Scrive Attilio Pavone, nel suo intervento pubblicato su Il Sole 24 Ore del 22 settembre, che, sia Andrea Orlando sia il sottoscritto, abbiamo «sostanzialmente attribuito la colpa della “precarietà” dei rapporti di lavoro a un provvedimento emanato da un governo guidato dal loro stesso partito».
Vorrei, in primo luogo, affermare che il perno della mia posizione critica sul Jobs Act – che ho espresso non oggi, nelle more della campagna elettorale richiamata da Pavone, ma fin dall’inizio dell’iter di quel complesso legislativo – è quello, al contrario, sul piano dell’occupazione, di non aver dato alcun contributo alla crescita della sua stabilità.
Non è la stessa cosa.
Se il principale obiettivo dichiarato, la “palla in buca d’angolo”, del Jobs Act era quello di favorire la stabilità occupazionale, esso è stato inevitabilmente mancato per ragioni insite nella sua stessa struttura. Di ciò cercai di avvertire Matteo Renzi, il presidente del Consiglio dell’epoca, con una dialettica corretta, pubblica e trasparente, che si trova agli atti dell’attività parlamentare di allora.
Voglio ricordare che la crescita dell’occupazione a tempo indeterminato che seguì la promulgazione della legge delega – e degli otto decreti legislativi che ricadono sotto la denominazione del Jobs Act – fu dovuta soprattutto alla legge di stabilità 2015, che prevedeva la decontribuzione totale, per alcuni anni, per le imprese che assumevano lavoratori con contratti di lavoro stabili. Esaurita la spinta di quegli incentivi fiscali, che qualcuno definì metadone di Stato, è tornato a crescere, nella dinamica occupazionale, il peso dei contratti a termine.
Quanto al resto delle criticità sono stati gli interventi della Corte Costituzionale a destrutturare quella legislazione: nel 2018, con la sentenza 194 che, di fatto, ha smontato il sistema delle tutele crescenti; nel 2020, con la censura del meccanismo di indennizzo per i licenziamenti illegittimi in caso di vizi formali e procedurali; nel 2021, dichiarando l’incostituzionalità della modifica apportata con la legge Fornero (92/2012) – richiamata da Pavone – all’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori; nel 2022 chiedendo al legislatore di modificare la disciplina relativa all’indennità prevista per i licenziamenti illegittimi nelle piccole imprese.
Aggiungo che, oltre a quanto detto, le ragioni del mio giudizio critico sul Jobs Act, si estendono anche al tema degli ammortizzatori sociali, a quello relativo al ridisegno del sistema delle attività ispettive e, ancora, a quello delle politiche attive.
In definitiva, il superamento del Jobs Act è necessario non per ragioni ideologiche e non “contro le imprese” e la loro autonomia decisionale. Ma perché, come detto sopra, l’obiettivo è stato mancato: tutta la filosofia della flexicurity è stata un fallimento. E perché è necessario avviare – per il bene comune di lavoratori e imprese – il mercato del lavoro verso una struttura, finalmente, più razionale; nella quale si accompagnino la stabilità occupazionale indispensabile a chi lavora e la flessibilità della prestazione necessaria alle imprese. La nostra ricetta è quella di sempre, in linea con quanto affermato dall’Europa: la stella polare è il lavoro a tempo indeterminato che va reso fiscalmente conveniente alle imprese.
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