scambi commerciali

Il lato ambientale dell’accordo Ue-Mercosur

di Andrea Goldstein

(Adobe Stock)

3' di lettura

Vent’anni non sono pochi per concludere un accordo di libero scambio (Fta, Free trade agreement), ma alla fine il risultato può giustificare l’attesa. Quello siglato tra l’Unione europea e il Mercosur, l’alleanza che unisce Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay, è il più grande al mondo in termini di popolazione (780 milioni di persone), offre grandi opportunità a imprese e consumatori dei due blocchi e segnala la volontà di essere leader nei processi di definizione delle nuove regole della globalizzazione, in un frangente in cui il protezionismo sembra dominare.

È difficile essere troppo precisi sul contenuto del Fta, dato che il testo completo non è stato ancora pubblicato ed è disponibile solo una sintesi di 17 pagine. Il punto nodale è che verrà progressivamente eliminata la maggior parte dei dazi (93% di quelli Ue e 91% delle tariffe Mercosur, che attualmente arrivano al 35% per gli autoveicoli, al 14-20% per i macchinari). Per gli esportatori europei (principalmente di manufatti e prodotti agro-industriali) il risparmio sarà di oltre 4 miliardi di euro all’anno, cioè oltre quattro volte i benefici prodotti dall’accordo con il Giappone del 2018. Ulteriori vantaggi sono associati all’apertura del mercato degli appalti pubblici. La quantificazione dell’impatto non è agevole, ma secondo uno studio del 2011 l’export europeo potrebbe crescere del 10% e l’import di un più modesto 3-4 per cento.

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Eppure in Europa questo accordo - che comprende clausole di protezione per l’ambiente, 357 denominazioni di origine e i settori sensibili ed entrerà in vigore solo una volta ottenuta l’unanime ratifica degli Stati membri e del Parlamento europeo (oltre che dei quattro Parlamenti nazionali del Mercosur) - solleva già forti reticenze, tanto da far presagire una ripetizione della saga del Ceta. Unisce contro di sé un fronte eteroclita di agricoltori, ecologisti e no-global, mischiando nobili motivazioni e interessi di bottega.

Per il Mercosur, che rappresenta uno dei principali player globali per varie commodity (cereali, carne rossa e bianca, frutta, caffè, succo d’arancia), l’interesse dell’accordo risiede nella riduzione dei dazi europei per oltre 80% del proprio export e nell’aumento delle quote (per esempio 160mila tonnellate di deliziosa carne bovina, tassata al 7,5%). Poca cosa rispetto alla produzione europea - 7,8 milioni di tonnellate - ma sufficiente a scatenare le associazioni di categoria che temono un effetto destabilizzante sul mercato e accusano i sudamericani di adottare norme ambientali e sanitarie molto meno esigenti, soprattutto riguardo al ricorso agli antibiotici.

Gli ambientalisti hanno in linea di mira Jair Bolsonaro, che ha abbassato le difese contro la deforestazione in Amazzonia e autorizzato l’utilizzo di 239 pesticidi potenzialmente nocivi, e minaccia di abbandonare l’Accordo di Parigi.

Infine, tutti insieme appassionatamente e indipendentemente dai contenuti, oppositori di destra e di sinistra criticano il principio stesso della liberalizzazione commerciale. Che danneggerebbe le produzioni locali, aumenterebbe le emissioni e impoverirebbe un po’ tutti. Anche nel Mercosur ci sono resistenze, non ultima quella dell’ex presidente argentina Cristina Fernández, che potrebbe tornare al potere a fine anno. È una querelle tutt’altro che nuova, che omette sistematicamente di considerare gli interessi dei consumatori e di fronte alla quale sembrano valere poco gli scaffali di studi empirici rigorosi - che suggeriscono che, se le politiche nazionali sono appropriate, il commercio resta dolce come sosteneva Montesquieu.

Tutte le voci vanno prese sul serio, ma gli argomenti a favore dell’accordo prevalgono. Esso introduce degli incentivi affinché il Brasile rispetti gli impegni internazionali assunti. Del resto già al G20 di Osaka gli europei hanno convinto Bolsonaro a firmare il comunicato a 19 sul cambiamento climatico, invece di appoggiare Trump. Nei negoziati commerciali bisogna poi pesare i benefici e i costi per ciascun settore e, se l’agricoltura rischia qualcosa per garantire vendite maggiori a industria e servizi, va salvaguardata (e del resto c’è già 1 miliardo di euro a disposizione per sostenere gli agricoltori). Per quanto riguarda le criticità del sistema di tracciabilità dei prodotti sudamericani, gli scandali non sono mancati negli ultimi anni neanche in Europa, e magari il Fta può essere ulteriore sprone per migliorare i nostri controlli.

A questo punto sarà interessante vedere quale posizione adotteranno le forze politiche italiane.

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