Il lavoro a distanza è un valore, non un benefit
Una “best practice” da gestire in modo strutturato e che richiede un cambio di mentalità nell’intera organizzazione, a cominciare dalle figure apicali
di Gianni Rusconi
3' di lettura
Cresce, e in modo sostanziale, la fetta di addetti italiani che dall’inizio della pandemia in poi vedono il lavoro a distanza come un prerequisito del rapporto professionale, piuttosto che un benefit. L’incremento è del 69%, rispetto al 41% registrato complessivamente nell’area Emea, e a dircelo è uno studio condotto fra giugno e luglio su scala internazionale da Vanson Bourne per conto di VMware (“La nuova era del lavoro a distanza: Trends in the Distributed Workforce”), intervistando circa 3mila decision maker aziendali, di cui 150 in Italia.
Il tema dello smart working, o home working che sia, è da mesi al centro del dibattito e anche in questo caso il messaggio che emerge premia in modo evidente questo modello di “conduzione” del lavoro. Ma non mancano le zone d’ombra, e la riprova arriva come sempre nei numeri che fotografano gli umori dei diretti interessati. Il 74% dei manager italiani (fra aree di business, Hr e It), infatti, riconosce che la propria organizzazione sta ottenendo benefici dal lavoro a distanza e difficilmente potrà tornare indietro ma è altrettanto esplicita la preoccupazione che vede il management non impegnarsi a sufficienza per adattarsi a questo nuovo modello e per offrire ai propri dipendenti una maggiore flessibilità.
Circa quattro decision maker intervistati su dieci (il 39% per la precisione) temono in proposito che il proprio team non svolga da remoto le proprie mansioni in modo adeguato. E se solo il 13% (rispetto al 28% del dato Emea) ritiene che l’attuale approccio dei vertici aziendali scoraggi l’attività a distanza, il 69% sente una maggiore pressione per essere online al di fuori del normale orario di lavoro.
Quelli appena descritti, secondo gli autori del rapporto, sono indicatori che confermano la necessità di un cambiamento culturale dall’alto verso il basso del modo di pensare e delle abitudini del management. Eppure, si legge nella nota che accompagna lo studio, i vantaggi per il business e per i dipendenti derivanti dal lavoro flessibile sono chiari, anche nell’ottica di poter sfruttare al meglio i talenti e le diverse competenze.
Nello specifico, l'85% dei dipendenti oggetto di indagine pensa che, da quando si lavora in remoto, le relazioni personali con i colleghi sono migliorate, il 67% si sente più sicuro di sé nel parlare in videoconferenza e il 75% rileva un miglioramento nei livelli di stress. Circa un terzo del campione, infine, assicura come grazie allo smart working sia cresciuta la produttività e aumentato il morale.
La pandemia, come si è più volte detto e scritto, ha quindi accelerato una trasformazione già avviata e smarcato forse definitivamente il concetto di lavoro “distribuito”, concetto che per le aziende significa - come sottolinea anche Kristine Dahl Steidel, vice president Euc Emea di VMware - dover adottare soluzioni per il digital workspace che consentono ai dipendenti remoti di essere collaborativi e coinvolti, senza ovviamente rinunciare alla compliance e alla sicurezza dei processi.
Ancora più esplicito è stato Carl Benedikt Frey, direttore del programma Future of Work della Oxford University, secondo il quale “i manager dovranno abbandonare il monitoraggio degli input per concentrarsi sull’output, se vogliono che le loro organizzazioni abbraccino veramente il modello del lavoro da qualsiasi luogo, e dovranno farlo in un contesto di fiducia reciproca. Trovare il giusto equilibrio sarà dunque la chiave per garantire che i dipendenti siano motivati e che operino un ambiente in cui la creatività possa prosperare”.
Il lavoro lontano dall’ufficio, insomma, non va considerato più come un benefit ma una “best practice” da gestire attraverso un approccio strutturato che richiede un cambio di mentalità nell’intera organizzazione, a cominciare ovviamente dalle figure apicali dell’azienda.
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