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«Sono tutte bugie e menzogne. Non abbiamo nulla al porto: né un deposito di armi, né un deposito di missili, né fucili, né bombe, né proiettili né nitrato d’ammonio». Hassan Nasrallah, il leader del potente movimento sciita Hezbollah, esce di rado allo scoperto. Questa volta, però, ha ritenuto necessario ricorrere a un discorso in tv alla nazione, concentrandosi sulla potente deflagrazione che martedì ha raso al suolo il porto di Beirut, ferendo oltre 5mila persone e facendo oltre 160 morti. Nasrallah ha invocato l’avvio di un’inchiesta, «giusta e indipendente», che deve però essere portata avanti dall’esercito.
La pista più seguita è che lo scoppio delle 2.700 tonnellate di nitrato di ammonio sia stato provocato da un incidente. Ma, considerando il contesto interno e regionale di forte tensione, non si esclude più nulla. Lo stesso presidente libanese, il cristiano maronita Michel Aoun, ha voluto intervenire per fare il punto. Ribadendo la necessità di un’inchiesta accurata che dovrà fare chiarezza sull’accaduto, il presidente libanese ha respinto la proposta del francese Emmanuel Macron per un’indagine internazionale. Aoun ha piuttosto sottolineato che le autorità libanesi sono «determinate» a comprendere cosa abbia causato le terribili esplosioni e ha assicurato «punizioni severe» per chi verrà riconosciuto colpevole. Il presidente libanese non ha voluto escludere nemmeno l’ipotesi dell’attentato: «C’è la possibilità di una azione esterna, con una bomba, un missile o altro».
La mobilitazione per gli aiuti
Mentre si prosegue a cercare tra le macerie i corpi di possibili sopravvissuti (secondo la Croce Rossa libanese mancano all’appello un centinaio di persone), mercoledì sono state arrestate 16 persone, tra cui il direttore generale del porto di Beirut, Hassan Koraytem.
Stati Uniti e Francia intanto stanno organizzando l’invio di ulteriori aiuti, con la massima urgenza. Già molti Paesi stanno inviando apparecchiature mediche e beni di prima necessità. Ma il pericolo è che, senza il porto, attraverso cui arrivava l’80% delle merci consumate nel Paese, possa scoppiare un’emergenza alimentare e sanitaria in un periodo giù molto difficile, in cui la pandemia di coronavirus ha ripreso forza e con il Paese in profonda crisi economica. A cui si devono ora aggiungere i danni dell’esplosione (le autorità libanesi parlano di cifre dai 5 ai 15 miliardi di dollari).
Dal dolore alla rabbia il passo è stato davvero breve. Molti libanesi sono tornati ieri in piazza a protestare. Giovedì notte al grido di “rivoluzione” , e sfidando i gas lacrimogeni lanciati dalle forze di sicurezza, i manifestanti si sono diretti verso il Parlamento percorrendo le vie precipitate nell’oscurità a causa dei continui black-out. Vi sono stati tra i dimostranti 20 feriti. Altre manifestazioni sono proseguite ieri in Piazza dei Martiri.
La rabbia è quasi sempre diretta all’élite al potere e al governo. Ma i dimostranti hanno attaccato spesso il movimento sciita Hezbollah, messo nel mirino e sospettato dalle forze politiche rivali di aver nascosto anche esplosivi e missili nella zona del porto colpita dall’esplosione (accusa che finora non ha però trovato riscontri).
Politici nell’ombra
Dinanzi al dinamismo di Macron, in visita di solidarietà a Beirut giovedì, non poteva passare inosservato il silenzio di molti leader politici e membri del governo, quasi tutti rimasti nell’ombra. Quelli che si sono mostrati in pubblico, come l’ex priemier Saad Hariri, e il ministro della Giustizia Marie-Caude Najm hanno assaggiato la rabbia dei dimostranti.
La polvere dell’esplosione si sta depositando sulle macerie del porto. Ma la cappa di tensione che grava su Beirut non si allenta. Ieri sera doveva essere reso noto il verdetto del Tribunale Speciale per il Libano sull’assassinio del premier Rafik Hariri, nel febbraio 2005, di cui la procura considera responsabili cinque militanti di Hezbollah (uno è morto nel 2016). L’annuncio è stato rimandato al 18 agosto. Ma in questo periodo in 10 giorni può accadere di tutto.
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