La reazione

Il libro di Ilda Boccassini apre un caso. Maria Falcone: violata la privacy

La sorella del giudice Giovanni, in una lettera inviata a La Sicilia, interviene dopo le polemiche suscitate dalla pubblicazione

Va in pensione la pm Boccassini

I punti chiave

  • Il ricordo dedicato al giudice
  • Maria Falcone: smarrito qualunque senso del pudore
  • Le rivelazioni nel libro

3' di lettura

«Finora ho preferito evitare commenti su una vicenda che mi ha molto amareggiata, ritenendo che il silenzio, di fronte a parole tanto inopportune, fosse la scelta più sensata. Quando, però, si supera il limite e si arriva, forse paradossalmente con fini opposti, a commenti inappropriati che scadono nella ridicolizzazione è, secondo me, impossibile non replicare». Così scrive Maria Falcone, sorella del giudice Giovanni, in una lettera inviata a La Sicilia a commento di un intervento “satirico” di Ottavio Cappellani sul libro autobiografico di Ilda Boccassini. Dei tanti fronti che riempiono il suo libro di memorie La stanza numero 30. Cronache di una vita (Feltrinelli editore), uno riguarda il magistrato simbolo della lotta alla mafia, con riferimenti anche personali.

Il ricordo dedicato al giudice

«Me ne innamorai», scrive e ripercorre l’ultima giornata passata insieme, in viaggio verso l’aeroporto di Linate, il 13 maggio del 1992. «Avevo scorto tra i capelli di Giovanni una specie di minuscolo verme bianco. Avrei voluto toglierlo, ma la mano si era bloccata: percepivo una strana sensazione di morte che mi turbava profondamente». L’avrebbe rivisto dieci giorni dopo, cadavere, nell’obitorio di Palermo. «Mi avvicinai. Purtroppo - si legge - in quel momento c’erano anche tre colleghi palermitani. Uno di loro venne verso di me, ma lo respinsi con un gesto rabbioso: sapevo che tutti e tre quei colleghi avevano ostacolato Giovanni, vivevo la loro presenza in quella stanza come un insulto alla sua memoria».

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Maria Falcone: smarrito qualunque senso del pudore

Le rivelazioni di carattere intimo hanno mosso diverse polemiche cui si aggiungono le parole di Maria Falcone. «Quel che allarma innanzitutto - afferma - è che sembra si sia smarrito ormai qualunque senso del pudore e del rispetto prima di tutto dei propri sentimenti (che si sostiene essere stati autentici), poi della vita e della sfera intima di persone che, purtroppo, non ci sono più, non possono più esprimersi su episodi veri o presunti che siano e che - ne sono certa - avrebbero vissuto questa violazione del privato come un’offesa profonda».

Le rivelazioni nel libro

Silvio Berlusconi, avversario di una vita; gli scontri con Gianni De Gennaro, la famiglia sacrificata per seguire le inchieste; i colleghi famosi che non meritano il suo rispetto, da Antonio Di Pietro («insopportabile, per me, la scena di Di Pietro inginocchiato accanto alla bara» di Saverio Borelli) a Nicola Gratteri ad Antonio Ingroia ai tanti magistrati che «si sono gettati sul filone “paladino o paladina dell’Antimafia”, un filone redditizio in termini di carriera e visibilità mediatica»; il Csm, dove albergano «protervia e arroganza». Anche sulla magistratura siciliana, l’opinione di Boccassini è tranchant. «Se Cosa nostra in Sicilia ha potuto vivere e prosperare per decenni - scrive - lo si deve anche - non solo, ovviamente, ma anche - all’inerzia di una magistratura pigra, pavida, in alcuni casi collusa». Non spende parole buone neanche per l’ex pm Antonino Di Matteo, che mette nel filone dei “paladini dell’Antimafia”, «piccoli miti fugaci, che si sono dissolti come neve al sole». L’ex magistrato ne ha anche per il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri, che «creava tensione con il suo continuo vantarsi di una conoscenza del fenomeno ndrangheta talmente approfondita e a suo dire unica da ricavarne bizzarramente (poiché era il solo a esserne convinto) un senso di superiorità nei nostri confronti».

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