Il libro percepito
Per scoprire le “next big thing” serve un grande amore: solo così possiamo capire quali storie vogliamo raccontarci intorno a un fuoco grande come il mondo
di Francesco Guglieri
6' di lettura
Mentre, all'inizio di marzo, stavo scrivendo questo articolo per IL, è arrivata la notizia dell'annullamento della London Book Fair che si sarebbe dovuta tenere da lì a pochi giorni, dal 10 al 12 marzo. La Fiera di Londra è la seconda più importante al mondo per l'acquisto e la vendita dei diritti di pubblicazione dei libri, la prima è quella (mitica) di Francoforte. La causa dell'annullamento è ovviamente l'epidemia del virus Covid-19: nei giorni precedenti già molti grossi gruppi editoriali avevano annunciato la propria rinuncia a partecipare, a cominciare dai colossi globali Hachette, HarperCollins e Simon&Schuster (tre delle cosiddette “Big Five” che da sole controllano il 60 per cento dell'editoria in lingua inglese: le altre due sono Penguin e Macmillan).
Un lettore italiano potrebbe equiparare queste Fiere al Salone del Libro di Torino: in realtà si tratta di manifestazioni profondamente differenti. Quella di Torino è indirizzata al pubblico generalista quelle di Francoforte e Londra sono dedicate in gran parte agli addetti ai lavori, editori e agenti. Ricordo la sensazione fortissima al mio primo Francoforte (nonostante quello editoriale sia un mestiere che ama fare sfoggio di cinismo, non mi vergogno a dire che quell'emozione la provo ancora tutti gli anni): la percezione chiarissima e forte che tutta l'industria mondiale del tuo settore stava convergendo in un unico luogo. Un unico luogo, per quanto enorme: la Buchmesse occupa decine di Halle (padiglioni) della fiera della città tedesca, molte di esse di tre o più piani, ognuna estesa quasi quanto tutto il Salone di Torino, ospita 9mila espositori e più di 300mila visitatori specializzati. Quella di Londra è decisamente più piccola, ma non meno affascinante (la città ci mette del suo). L'emozione è quella di sentirsi parte di una piccola grande comunità globale, convenuta lì con te per trovare la next big thing. È quindi qui che si trova il “nuovo”?
No.Difficile dire adesso se la cancellazione della Fiera di Londra avrà delle conseguenze sul mercato editoriale del futuro prossimo (di certo le ha e le avrà il Covid-19, ma questo è un altro discorso), ma difficilmente inciderà sulla circolazione di proposte e novità editoriali. Perché le fiere sono occasioni importanti, indispensabili (si stringono relazioni, si cementano contatti, si incontrano colleghi e si scambiano opinioni, si tasta il polso del mercato), ma quanti libri davvero “nuovi” sono usciti da una fiera negli ultimi anni? Il “libro della fiera”, il libro “caldo”, che tutti gli editori vogliono leggere e comprare è spesso un wishful thinking, quando non un'operazione di marketing.
Ogni editor riceve anche dai dieci romanzi in su al giorno da agenti, editori stranieri, scout di tutto il mondo. E parliamo di libri, non manoscritti mandati dall'aspirante sconosciuto di turno: questi sono già stati letti, approvati, editati e contrattualizzati. Arrivano per mail, per Pdf di cui stampare qualche pagina o da leggersi sull'iPad, accompagnati da roboanti lettere d'incoraggiamento o, nel caso degli scout, da report un po' più oggettivi. Gli scout, figure fondamentali: sono individui o agenzie che scandagliano un territorio, una lingua o un mercato (ad esempio quello francese) in cerca di libri e propongono agli editori stranieri (ad esempio a me, italiano) i titoli che ritengono migliori e più interessanti per me.
C'è un altro elemento da considerare: il tempo. È finito il tempo in cui consulenti ed editor si riempivano la valigia di libri dopo essersi fatti un giro nelle librerie di New York o Londra, o quando la casa editrice straniera inviava il volume a quella italiana che lo teneva mesi su una scrivania in attesa che qualcuno lo sfogliasse: i libri si leggono (e si scelgono) anni prima, le tendenze si devono intuire (o inseguire) quando sono ancora nebulose, del tutto ipotetiche. I pareri, le schede di lettura girano per mail, a volte addirittura per messaggio se c'è l'urgenza di arrivare prima dell'editore concorrente: difficile così ricostruire un archivio come quelli bellissimi e preziosi dell'editoria del Novecento.
La scheda editoriale è un genere a sé, basterebbe sfogliare il volume Centolettori. I pareri di lettura dei consulenti Einaudi 1941-1991, oppure abbandonarsi alle splendide Estrosità rigorose di un consulente editoriale di Giorgio Manganelli, volumetto adelphiano che raccoglie pareri e lettere del “tapiro”: tutt'altro che anarchico e autotelico – come il santino in cui certa ricezione d'oggi l'ha ridotto pensando di esaltarlo – Manganelli è un consulente e un editor disciplinato e duttile, consapevole che quella editoriale è un'impresa collettiva che raggiunge l'eccellenza soltanto nel compromesso capace di distinguere i libri destinati a chi «ha palato troppo generico», e quindi non adatti all'editore, da quelli destinati a una «circolazione monastica» e pertanto ugualmente inadatti.
Un altro fattore di peso sono ovviamente gli agenti, soprattutto certi agenti internazionali che sanno muoversi come pochi altri in quell'ecosistema internazionale che è l'editoria. O la lingua: che ci sia un'egemonia della lingua inglese e quindi della sua produzione editoriale è cosa nota. Meno noto è quanto l'inglese (o meglio: New York e il suo mercato editoriale di riviste, editori e agenti) conti nel decretare l'esplosione del famigerato “caso editoriale”, anche soltanto imprimendo un poderoso rimbalzo a un libro scritto in un'altra lingua. Non esisterebbe nessuna “Ferrante Fever” mondiale se la nostra Elena Ferrante non fosse stata adottata dall'intellighenzia newyorkese. Così come Karl Ove Knausgård ha avuto successo nel mondo (ed è stato tradotto) soltanto dopo aver trovato un agente americano molto bravo ed essere tradotto e letto lì. Lo stesso mito di Roberto Bolaño era molto meno mainstream prima che i suoi libri facessero un giro sull'Hudson.
Quindi le fiere, si diceva, pesano molto meno. Ma poi comunque ti fai prendere dall'entusiasmo generale che serpeggia tra stand e tavolini degli agenti e poi mica vuoi tornare a casa senza “il libro della fiera”, pagato magari centinaia di migliaia di euro dopo averlo letto in frettissima di notte in albergo solo per correr dietro a una voce, a una sensazione, al commento biascicato dal collega olandese al terzo doppio whisky al Frankfurter Hof, l'albergo del centro della città tedesca dove si raccoglie la mondanità quando si abbassano le saracinesche delle Halle.
Ma insomma, il nuovo grande romanzo letterario che ridefinisce lo stile di un'epoca dove lo peschi? Il nuovo best-seller che replichi il successo, che so, della Ragazza del treno (avrete fatto caso a quanti thriller con “Ragazza” nel titolo sono usciti poi, per intercettare una briciola del successo del romanzo di Paula Hawkins), come lo trovi? Questo benedetto nuovo, dove lo prendi? Se lo sapessi, scriverei pigramente queste righe dal mio yacht tra i Caraibi e Bordighera, e invece…
Invece mi chiedo cosa abbia portato una persona come me, uno studioso di New Historicism all'università, a fare questo mestiere così simile al rabdomante, allo sciamano. In cui gusto, intuizione, capacità di ascolto, e di costruirsi una rete di “informatori” attenti hanno così grande importanza. In cui i libri si leggono, ma prima bisogna trovarli gettando le reti nei mari giusti, intrecciando rapporti di fiducia con autori, agenti ed editori; in cui i libri si inventano, si leggono in prospettiva (come verrà accolto quel particolare in Italia? Come cambiamo il titolo? Quante volte un titolo ben scelto ha cambiato i destini di un libro…); in cui si leggono soprattutto i segni dei tempi, le inquietudini degli autori, le domande dei lettori, si leggono riviste o tweet interpretandoli come gli aruspici interpretavano il volo degli uccelli. In cui si scommette, come in Borsa, solo che è quella della letteratura: ma alla fine sempre di titoli stiamo parlando.
A proposito di titoli. Mi torna spesso in mente un romanzo di qualche anno fa di William Gibson, il padre del cyberpunk: si intitolava Pattern Recognition (in italiano L'accademia dei sogni, Mondadori) ed è la storia di Cayce Pollard, una cacciatrice di tendenze ed esperta di moda che ha questa capacità di capire se un certo logo avrà successo o no. È una che riconosce i pattern, vede le regolarità che si ripetono nel quadro sfocato del presente. Alla fine credo sia questo grande amore per la società, per come l'energia circola all'interno di una comunità (che è quello che studia il neo storicismo, ma non divaghiamo), quel legame tra potere, immaginazione, paure e speranze che, a volte, si riflette, come in uno specchio oscuro, nelle storie che ci raccontiamo intorno al fuoco. Un fuoco, oggi, grande come il mondo.
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