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Il macigno del debito Usa, le maratone per evitare il default

Lievitato al 100% del Pil, un record da 74 anni, a quota 32mila miliardi di dollari

di Marco Valsania

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4' di lettura

Correva l’anno 1917 quando gli Stati Uniti adottarono il tetto del debito. Il cosiddetto debt ceiling, che per legge del Congresso (il Second Liberty Bond Act) stabilisce il massimo dell’indebitamento del governo del Paese. Voleva in realtà garantire autonomia al Tesoro in momenti delicati: autorizzarlo a emettere titoli senza chiedere costanti via libera parlamentari, davanti all’impegno richiesto dalla Prima Guerra Mondiale.

Oggi però non è più una nota a margine nella storia, né strumento di flessibilità. Al contrario si è trasformato in catalizzatore di spirali di crisi politiche e fiscali. Alimentate da impennate dell’indebitamento e, ancor più, da una polarizzazione tra i due grandi partiti americani, democratici e repubblicani, che rende sempre più arduo gestire le sfide aperte. Tanto che periodicamente riporta alla ribalta spettri di default e paralisi governative, finora scongiurati da manovre contabili straordinarie e da accordi rabberciati in extremis.

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La mossa di Fitch

È a questo contesto problematico che allude la decisione di Fitch di declassare il rating statunitense. Al di là delle discussioni su merito e tempismo (criticati dall’amministrazione Biden) e sull’impatto ravvicinato per economia e mercati (secondo molti analisti limitato davanti alla continua solidità Usa), quei due nodi, fiscale e politico, restano irrisolti. La mossa di Fitch di sicuro accende i riflettori su di loro, minacciando un nuovo colpo d’immagine e forse di credibilità alla principale potenza economica al mondo. Diventa infatti la seconda delle tre grandi agenzie di valutazione del credito a declassare gli Usa, privandoli per la prima volta del voto di tripla A, di massima sicurezza, dopo che Standard & Poor’s compì una simile scelta, finora confermata, nel 2011, aumentando le pressioni su Washington a cambi di rotta.

Il peggioramento

Il peggioramento del carico del debito è nella lunga traiettoria delle cifre. Ha superato i 32.000 miliardi – pari, vale a dire, a quasi centomila dollari pro-capite. L’ufficio studi del Congresso lo vede, senza interventi, tagliare il traguardo dei 50.000 miliardi fra un decennio. La componente più significativa, quella detenuta dal pubblico (che esclude l’oltre 20% in mano a enti e agenzie governative) è lievitata al 100% del Pil nel 2020 (135% contando il debito nella sua interezza), un record da 74 anni; dovrebbe valicare quella soglia nel 2024 e balzare al 119% entro il 2033. Cresce oggi al passo degli interessi sul debito, quest’anno i pagamenti sono sono rincarati del 25% dal 2022, e dei continui deficit annuali. Corona una marcia a singhiozzo che ha accelerato dagli anni Ottanta di Ronald Reagan, sotto presidenti di entrambi i partiti, a caccia di risorse per ingenti sgravi fiscali (tradizionalmente repubblicani), azioni di spesa sociale (democratici) ma anche guerre, risposte a crisi dalla Grande Recessione del 2008 al Covid e alle necessità di programmi che marciano con l’invecchiamento della popolazione (pensioni e sanità). Risultato: in vent’anni il debito si è gonfiato di almeno 25 miliardi imponendo nuovo indebitamento.

Escalation

L’andamento del debito, però, da solo non scatena crisi, con gli Usa che beneficiano della posizione di economia leader e del dollaro valuta di riserva e riferimento internazionale. Il ruolo di miccia spetta alla politica. Se ritoccare il tetto del debito era operazione di routine, dagli anni Sessanta avvenuta 79 volte, 49 con alla Casa Bianca un repubblicano e 30 un democratico, adesso è diventata occasione di battaglia. Ostaggio delle divisioni tra i partiti, che si accusano a vicenda di portare al disastro il Paese. Il campanello d’allarme suonò nel 2011: il Paese sfiorò il default nel muro contro muro tra il Presidente dem Barack Obama e i repubblicani al Congresso. Un affannoso compromesso non evitò il declassamento senza precedenti da parte di S&P. Lo shock sui mercati vide la Borsa cedere il 7%, anche se le ripercussioni si rivelarono temporanee.

L’accordo di Biden

Il più recente accordo, consacrato a maggio tra Joe Biden e i conservatori, sembra ripetere il copione. Ha sospeso il debt ceiling ormai raggiunto a 31.400 miliardi fino a inizio 2025, in cambio congelando il budget, difesa esclusa, nel 2024 e bloccando gli aumenti all’1% l’anno successivo. In dieci anni promette risparmi per 1.500 miliardi. Tensioni e paralisi del governo restano tuttavia in agguato, fin dal dibattito congressuale in autunno sui dettagli della prossima finanziaria. E irrisolte restano le sfide di riforme di fondo, dalle pensioni del social security all’assistenza agli anziani di Medicare: la Wharton School stima che un equilibrio fiscale richiederebbe tagli draconiani del 30%, anche a simili popolari programmi, o aumenti delle entrate del 40 per cento. Questa volta è stata così Fitch a concludere che la salute fiscale del Paese rischia di restare prigioniera, nel lungo termine, nella morsa del debito e di una politica avvelenata che ostacola vie d’uscita.

Mesi di trattative

Ci sono voluti più di sei mesi per l’amministrazione democratica di Joe Biden per trovare l’accordo sul nuovo tetto al debito (31.400 miliardi di dollari) con la maggioranza repubblicana alla Camera guidata da Kevin McCarthy (foto sotto). Al Congresso il default tecnico è stato evitato all’inizio di giugno, ma già lo scorso gennaio la segretaria al Tesoro, Janet Yellen (foto sopra) ammoniva sui rischi di «una catastrofe economica» in mancanza di un accordo. Risale al 2011, con la presidenza di Barack Obama, lo scontro che portò al declassamento di S&P

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