ServizioContenuto basato su fatti, osservati e verificati dal reporter in modo diretto o riportati da fonti verificate e attendibili.Scopri di piùA tavola con

«Il mio sogno si chiamava Harvard e i sogni non si negoziano»

Giovanna Della Posta. Prima di gestire una parte consistente del patrimonio immobiliare pubblico, l'ad d'Invimit ha fatto molte cose, tra cui lavorare da bambina e studiare da adulta

di Paolo Bricco

6' di lettura

«Mio padre Giuseppe tagliava. Mia madre Immacolata cuciva. Abitavamo qui a Napoli in via Atri, la prosecuzione di via Nilo che incrocia via dei Tribunali. Al primo piano c’era la casa vera e propria. Al piano terra c’era “la fabbrica”. Così la chiamavamo. I miei genitori erano terzisti della moda. Confezionavano borse. Ricevevano dai committenti il modello da riprodurre e la pelle da lavorare. Ottenevano per ognuna 3mila lire. Una volta, da bambina, vidi una di queste borse, con il marchio di una griffe, esposta nella vetrina di un negozio a una cifra altissima. Per me, mio fratello Raffaele e mia sorella Tecla, non c’era nulla di faticoso, di avvilente o tantomeno di tragico. La nostra famiglia era serena. Io, nella “fabbrica”, incollavo. Per me era un gioco».

Mentre lo dice, Giovanna Della Posta mima sul bordo del tavolo il gesto che, da bambina, ha compiuto tante volte. E, poi, mi mostra l’indice della mano destra, che in effetti è, seppur di poco, più grande e più spesso dell’indice della mano sinistra.

Loading...

Siamo al Ristorante Europeo Mattozzi, uno dei luoghi classici della cucina di Napoli. «Qui – dice Giovanna – sento sapori simili a quelli di casa. Mia madre faceva una pasta alla genovese strepitosa. Anche a me viene bene. Mia sorella Tecla è bravissima con la pasta con provola e patate. La sera prima di spegnersi mia mamma, che non stava bene da tempo, chiese a Tecla di cucinargliela e ne mangiò due piatti».

Della Posta – un marito (Paolo), un figlio (Federico, 15 anni) e una figlia (Martina, 12 anni) – è dal 2019 amministratrice delegata di Invimit, la società pubblica che controlla una parte consistente del patrimonio immobiliare pubblico italiano (due miliardi di valore, quattordici fondi chiusi). Il compito storico è di valorizzarlo, in particolare tramite le cessioni, permettendo così al Mef di ridurre il debito pubblico. Nei tre anni precedenti al suo arrivo, le vendite erano state pari a 30 milioni di euro. In cinque anni, conta di chiudere a 500 milioni di euro. «È come se ogni bambino italiano nascesse con un pezzo del debito pubblico dentro alla culla. Io e i miei collaboratori, ogni volta che chiudiamo un’operazione significativa, calcoliamo simbolicamente a quanti bambini abbiamo tolto questo fardello: con le operazioni in corso, entro il 2023 dovremmo arrivare a 10mila», racconta.

Giovanna è interessante per tre ragioni. Il suo è uno dei rari casi di ascensore sociale in Italia ben funzionante, vissuto con tranquillità e senza senso di rivalsa. È donna in un mondo che, a Roma ancora più che a Milano o a Bologna o a Torino o a Padova, è maschile e gerontocratico. Nella capitale – cuore dei cortocircuiti fra politica e alta amministrazione pubblica, lobbying e aziende di Stato – è stata, fino al suo arrivo in Invimit nel 2019, una sconosciuta.

Il proprietario dell’Europeo, il signor Alfonso, inonda noi – come tutti i clienti – di attenzioni. L’ironia per il mondo e l’energia per le cose rendono il suo volto una maschera. Prima di tutto ci fa portare un Greco di Tufo. Fuori fa freddo. Napoli è assolata. Ma, da giorni, è battuta da un vento che rende più trasparente la sua aria e più nitidi i suoi palazzi. «Napoli… è la più misteriosa città d’Europa, è la sola città del mondo antico che non sia perita come Ilio, come Ninive, come Babilonia. È la sola città del mondo che non è affondata nell’immane naufragio della civiltà antica. Napoli è una Pompei che non è mai stata sepolta. Non è una città: è un mondo», scrive Curzio Malaparte in La pelle.

Ogni città ha un destino che può riflettersi e condizionare la vita e il punto di vista di chi ci nasce e ci cresce. Giovanna Della Posta si sottrae all’immaginazione che perpetua il mito della città sempre diversa da tutte le altre, in ogni caso sopravvissuta e per definizione dolente.

Come antipasto arrivano fritture classiche della cucina napoletana. Quindi, della pizza. Poi, della mozzarella. E, alla fine, un piatto di friarielli. Mentre mangiamo entrambi di gusto, Giovanna riflette: «Non ho mai avuto in me la retorica del disagio e il vessillo del riscatto, perché la Napoli popolare è complicata, ma è spesso diversa dalla rappresentazione che se ne fa. I suoi paradossi vanno sempre interpretati. I miei genitori si erano impegnati molto per iscrivermi in un istituto privato retto dalle suore, che però in verità era frequentato anche dalle adolescenti delle famiglie di Camorra che senza problemi potevano pagare la retta. Quando chiesi e ottenni di passare alla scuola pubblica, i miei compagni diventarono i figli e le figlie della piccola borghesia di Napoli, decisamente più quieta. Mia madre, che aveva la quinta elementare, ha fatto lavori umili. Eravamo molto uniti. Mia nonna Tecla, che abitava a Forcella, aveva una buona pensione. Mia zia Nunzia, che era la mia madrina di battesimo, era infermiera. Mio padre si è deciso a chiudere “la fabbrica” quando ha perso, in un incidente di lavoro, l’occhio destro. Io ero al terzo anno di Commercio internazionale e mercati valutari dell’Istituto universitario navale, la seconda università di Napoli che si chiama oggi Parthenope». E, poi, aggiunge con una serenità generata da una assenza di melodramma che, ovunque in Italia, è una cosa rara: «Fino ad allora, l’accordo era stato che io, dopo avere lavorato in “fabbrica”, avrei potuto studiare dalle sei di sera in avanti. Ogni giorno macinavo libri fino alle due di notte. Per mantenermi, ho lavorato come stenodattilografa al Tribunale di Napoli: ho steso ordinanze di custodia cautelare per uomini politici accusati di corruzione e ho scritto verbali di autopsia di assassinati dalla Camorra».

Arrivano in tavola due abbondanti terrine di pasta: una di pasta alla genovese e una di pasta con provola e patate. Lei prende con un mestolo dalla prima. Io dalla seconda. Il percorso manageriale di Della Posta è segnato dalla sequenza Enel-Fastweb-Studio Ermolli-Sara Assicurazioni. Ricorda Della Posta: «Durante il primo governo Conte il Mef era guidato da Giovanni Tria. Per la posizione di capoazienda di Invimit, erano in lizza tre candidati, che però non soddisfacevano pienamente il ministro. Io ho sempre avuto il pallino dei bilanci. Arrivai al colloquio avendoli studiati a fondo e avendo letto bene le ultime relazioni della Corte dei Conti. Non conoscevo nessuno né nel governo né in Parlamento. Al colloquio lui, da professore universitario, fu colpito dalla mia conoscenza dei numeri. Tutti avevano uno sponsor. Io no. Lui mi avrebbe poi raccontato che, quando uscii dal suo ufficio, mise sul mio curriculum il suo cognome».

Invimit genera, a favore dello Stato, soldi buoni (gli incassi delle dismissioni, i rendimenti delle gestioni, gli affitti e i servizi) da soldi fermi (appunto, il real estate pubblico). A Roma ogni anfratto dell’economia pubblica produce incarichi e consulenze, consulenze e incarichi a banche d’affari, a società dai nomi altisonanti e a “specialisti” che sono usi agli equilibri politici tanto quanto alle tecniche di mercato. Invimit, invece, tende a svolgere ogni incombenza al suo interno: «Per il Fondo Dante, che ha raccolto da investitori privati 250 milioni di euro, abbiamo speso fra due diligence, business plan, studio legale e notai intorno a 800mila euro».
Non proprio una cifra con cui organizzare il tradizionale “sabba” da denaro pubblico.

Il primo è così buono da cancellare ogni ipotesi di secondo, inducendo entrambi a un bis incrociato: questa volta lei prende dalla terrina la pasta con provola e patate e io faccio lo stesso con la pasta alla genovese.

Di fronte alle difficoltà della vita – il padre è mancato di Sla, la madre di cancro, bene non avranno fatto ai loro organismi le colle, i coloranti, le tinture e gli effluvi della “fabbrica” – Della Posta evita il codice della tragedia. Conosce però la serietà della commedia umana, in cui la progettualità è fatta di desideri di arrivare non solo in alcune posizioni, ma anche in certi luoghi: «Per lungo tempo non sono riuscita a diventare amministratrice delegata. Lavorare con il consulente strategico Bruno Ermolli mi aveva permesso di avere una visione complessiva della natura degli imprenditori e della fisiologia delle imprese. Nel 2016 feci una domanda di ammissione alla Harvard Business School per il General Manager Program, che durava quattro mesi, di cui due a Boston. Harvard era sempre stato il mio sogno. Non conoscevo nessuno che ci fosse andato. Non avevo lettere di referenza importanti da esibire. All’ultimo colloquio, alla direttrice di Harvard, Vicki Good, spiegai
che avevo mandato quella unica richiesta di ammissione, perché il mio sogno era Harvard e i sogni non si negoziano. Capii di avercela fatta quando lei mi disse: “Giovanna, you are so lovely”».

Arrivano i caffè. E, mentre li beviamo, Giovanna Della Posta – fra Napoli, Boston e Roma – mi ricorda la protagonista di Una fioraia, il racconto di una scrittrice di Napoli troppo dimenticata, Matilde Serao: «La bimba camminava lentamente, rasentando il muro, per la via stretta e tortuosa dei Mercanti. Non guardava nelle botteghe, non alzava gli occhi a quella lunga striscia di cielo che appariva fra le alte case, non guardava neppure dinnanzi a sé. Guardava le pietre, come se le contasse. Camminava, senza curarsi del fango del selciato, degli urtoni che le davano». Anche Giovanna, come quella bambina, ha camminato, camminato, camminato.

Riproduzione riservata ©

loading...

Loading...

Brand connect

Loading...

Newsletter

Notizie e approfondimenti sugli avvenimenti politici, economici e finanziari.

Iscriviti