ServizioContenuto basato su fatti, osservati e verificati dal reporter in modo diretto o riportati da fonti verificate e attendibili.Scopri di piùIL LAVORO CHE CAMBIA

Il mito pericoloso del «mollo tutto e seguo i miei sogni»

Bastano quattro concetti base (rimozione, illusione, discriminazione, fuga) per vedere con occhi diversi la realtà dietro le facili illusioni

di Lorenzo Cavalieri *

(© Zoonar/WWW SHOCK CO )

4' di lettura

Da molti anni nel mondo del management consulenti e “guru” vari predicano la bellezza del cambiamento: cambiamento nella strategia delle aziende, nei modelli di business, nell’approccio professionale, nella mentalità delle persone. Cambiamento anche e soprattutto nei percorsi di carriera. Cambiare è bello. Cambiare fa bene. Orientatori, esperti, coach, direttori del personale incitano a non aver paura di rischiare, a lasciare il lavoro che non ci piace per abbracciare quello che ci appassiona e ci valorizza: “Quanto l’hanno pagata per rinunciare ai suoi sogni?” chiede George Clooney nel film “Tra le nuvole” ad un impiegato cercando di convincerlo che perdere l’attuale lavoro è una grande opportunità.

Negli ultimi anni si è affermato l’acronimo Yolo (You only live once) ad indicare una sorta di “diritto all’autorealizzazione”. Questo “vento culturale” che ritroviamo nei testi di molte canzoni (“La verità” di Brunori Sas la mia preferita) e nella sceneggiatura di tantissime pellicole di successo è uno dei fattori che spiega il fenomeno della cosiddetta “Great Resignation”, l’ondata di dimissioni e di abbandoni del lavoro che è stata intercettata dalle statistiche nelle economie sviluppate al tempo del Covid. In Italia avevamo bisogno di liberare la mentalità delle giovani generazioni dalla nostra storica predilezione per il posto fisso a vita.

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Personalmente nella mia attività di coach e formatore mi sono sempre lasciato condizionare da questo “vento culturale” che considera sempre il cambiamento un “valore in sé”. Tuttavia analizzando i dati e ascoltando le storie dei miei clienti in tante aziende diverse comincio a pensare che questo innamoramento incondizionato per il “mollo tutto e seguo i miei sogni” può diventare una droga che non ci fa bene. Per spiegarlo faccio riferimento a quattro concetti: rimozione, illusione, discriminazione, fuga.

Illusione: Il “mollo tutto e seguo i miei sogni” si fonda sulla mitizzazione della felicità lavorativa. E come sappiamo bene la felicità al lavoro è un’illusione. Necessaria, fisiologica, utile ma pur sempre un’illusione. Molti di noi amano il celebre aforisma “scegli il lavoro che ami e non lavorerai mai un solo giorno”, ma la realtà che sperimentiamo è che il lavoro di tutti i giorni non è il paradiso in terra.

Più teorizziamo il cambiamento come strada da intraprendere di fronte all’insoddisfazione più ci convinciamo che esista il diritto alla felicità lavorativa, più viviamo il malessere dello scostamento tra mondo ideale e mondo reale. Insomma c’è il rischio di creare una generazione di lavoratori eternamente insoddisfatti, inquieti, precari, magari non in senso contrattuale ma in senso “esistenziale” (mi sento sempre di passaggio perché devo sempre inseguire la felicità). È facile stabilire un parallelismo tra questa dinamica nel mondo del lavoro e quella sentimentale nel mondo delle relazioni affettive.

Rimozione: Il “mollo tutto e seguo i miei sogni” si fonda anche sulla rimozione di una componente costitutiva del lavoro: il dolore. Dolore inteso come sudore della fronte, fatica, “travaglio” (la parola lavoro in francese ma anche in piemontese o siciliano), ma anche come noia, frustrazione, repulsione. Se il lavoro non fa un pò male che senso ha il riposo del settimo giorno? “Odiare il proprio lavoro” fa parte del lavoro. Anche se nel linguaggio edulcorato delle aziende il lavoro è sempre “smart”, “agile”, “flessibile” e la carriera è sempre fatta di “opportunità” e “crescita” la realtà ci dice che il lavoro è per definizione sempre “duro”. Lavorare solo per piacere non esiste, significherebbe trovarsi di fronte ad un hobby.

Discriminazione: Il mito del “mollo tutto e seguo i miei sogni” è pericoloso perché crea una discriminazione tra chi se lo può permettere e chi non se lo può permettere. I soldi e le competenze non sono distribuiti equamente nella società e se andiamo ad analizzare le storie di successo di cambiamenti virtuosi, quelle che troviamo raccontate nei film e negli articoli di giornale (“ero un impiegato frustrato, oggi allevo galline e sono un imprenditore felice”) scopriamo che quasi sempre la persona che “ha preso il volo” aveva un paracadute, costituito o dalle proprie risorse economiche o dalla forza del proprio curriculum o dalle proprie relazioni. Per molti ma non per tutti insomma. I giornali non ci raccontano mai la storia di chi è rimbalzato dalla padella alla brace e vive nel rimorso di aver abbandonato un lavoro che non andava abbandonato.

Fuga: Detestare il proprio lavoro significa per molti essenzialmente detestare il capo o i colleghi. In molti casi allora il “mollo tutto e seguo i miei sogni” non è un atto di coraggio, ma il segno di un fallimento nel riuscire a trovare un rapporto equilibrato con gli altri, a misurarsi serenamente con il limite del “diverso da sé”. Promuovere sempre e comunque il cambiamento come un valore può diventare quindi un incentivo a non affrontare la sfida del confronto con chi ci circonda. Non ci fa bene.

In definitiva bisogna guardare al fenomeno “mollo tutto e seguo i miei sogni” nella sua ambivalenza: da un lato la bellezza del fare della propria vita una grande cosa attraverso il lavoro, aspirazione legittima e meravigliosa che ci dà la forza di alzarci dal letto il lunedì mattina. Dall’altro l'aspetto illusorio e destabilizzante di una fuga continua. Se scappo sempre rischio di perdermi il bello del lavoro che è capire il senso di ciò che ho costruito nel tempo.

Da qualche tempo a questa parte quindi ho smesso di incoraggiare i manager che mi sottopongono il dilemma “resto o cambio”. Il mio consiglio a chi scalpita è “pazienta, consolida il tuo lavoro, fai un altro giro, arriverà presto un’altra occasione, aspetta che la tua cattedrale sia finita prima di mollare.” Non è detto che lo facciano ma è bene che ci pensino una volta in più.

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