commentolezioni di storia al tempo del coronavirus

Il morbo della ragione

I meccanismi sociali e le reazioni emotive innescati dalle epidemie sono sempre gli stessi. Il morbo invisibile e il contagio che si diffonde inarrestabile suscitano da millenni paure e comportamenti irrazionali. Vogliamo arginare il propagarsi delle psicosi? Iniziamo rileggendo Tucidide

di Giorgio Ieranò

4' di lettura

Il contagio arriva dalla Cina. Passa attraverso la fitta rete di contatti e di scambi che lega l'Oriente all’Occidente, si affaccia sul Mediterraneo, raggiunge l’Europa continentale. Qualcuno reclama a gran voce la chiusura delle frontiere: bisogna sigillare i confini per impedire al morbo di diffondersi. Ma l'epidemia sembra inarrestabile, la paura dilaga in tutto il mondo. Non è cronaca di oggi: è il racconto di quello che è successo quasi sette secoli fa in Europa.

Era il 1348: la peste nera, originatasi probabilmente nel cuore dell’Asia e diffusasi attraverso le stazioni della Via della Seta, fece milioni di morti. Ma produsse anche un capolavoro come il Decamerone di Boccaccio, le cui novelle si immaginano narrate appunto da una brigata di giovani ritiratisi in campagna per fuggire al contagio. Oggi, con i timori per il coronavirus, questi precedenti storici si riaffacciano quasi fatalmente alla memoria. E ci restituiscono un paradigma che, nella realtà della storia come nella finzione letteraria, sembra riprodursi con inesorabile fatalità, per quanto i tempi e i costumi possano essere diversi.

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Il morbo invisibile, il contagio che si diffonde in maniera misteriosa e inarrestabile, suscita da millenni un terrore che non sempre è razionale. Inutile fare riferimento alle statistiche e ricordare, per esempio, come hanno fatto alcuni commentatori, che, almeno in Europa, gli incidenti stradali oggi fanno più morti di qualsiasi epidemia. L’idea del contagio porta da sempre con sé un carico di inquietudini irrazionali. E genera anche il desiderio di trovare un capro espiatorio, un colpevole a cui attribuire l'origine del male: i turisti cinesi presi a male parole o bersagliati a colpi di sputi sono solo le ultime vittime di una millenaria caccia all'untore.

Le epidemie, senza dubbio, hanno spesso fatto la storia. Anche nel mondo antico. Tanto che uno studioso americano, Kyle Harper, in un libro tradotto pochi mesi fa da Einaudi (“Il destino di Roma”) ha potuto sostenere che, nel determinare la fine dell’impero romano, germi e virus sono stati più importanti delle invasioni dei barbari. Si va dalla peste antonina, esplosa nel 165, al tempo di Marco Aurelio, fino alla peste di Giustiniano, diffusasi, nel 531, a partire dal Delta del Nilo in tutta Europa. L’origine del morbo era sempre lontana, il veicolo erano spesso gli animali: il contagio viaggiava con le carovane che percorrevano la Via della Seta oppure sui barconi che, risalendo il Nilo, portavano a Roma, dal cuore dell’Africa, le belve destinate al Colosseo.

Ma si può risalire ancora più indietro rispetto al tempo degli imperatori romani. “Epidemia” e “pandemia” sono parole greche. Indicano qualcosa che si diffonde rapidamente e capillarmente attraverso diversi territori e popolazioni (demoi). E, peraltro, all’inizio del primo testo della letteratura occidentale, l’Iliade di Omero, si trova appunto la descrizione di una pestilenza che stermina animali e uomini nel campo degli Achei: un flagello mandato da Apollo per vendicare l'offesa fatta dal re Agamennone a un suo sacerdote. Già in questo protoracconto della peste affiora un’idea mitologica comune nell’antichità: che le epidemie, così terribili e misteriose, siano in realtà una punizione divina. Anche la pestilenza che affligge la città di Tebe durante il governo di Edipo, come racconta Sofocle nella sua tragedia Edipo Re, ha un’origine sovrannaturale: è calata sulla città per colpa dei delitti di Edipo, l’uomo che ha ucciso il padre e si è unito con la madre. Per salvare la città dal morbo, si chiede consiglio all'oracolo di Apollo. Il signore di Delfi, infatti, aveva due volti: era la divinità terribile e mortale che inviava le pestilenze, ma anche il dio guaritore a cui rivolgersi per farle cessare.

Non sempre, tuttavia, le epidemie venivano considerate entro una prospettiva religiosa. La più famosa pestilenza dell'antichità fu probabilmente quella che colpì Atene nel 430 a.C. e provocò anche la morte di Pericle. Essa deve la sua fama anche alla celebre descrizione che ce ne ha lasciato lo storico Tucidide, il quale descrive i sintomi e il propagarsi della malattia con la minuzia e il rigore di un clinico. Erano, del resto, gli anni in cui ad Atene si andava diffondendo la scienza medica di Ippocrate. La leggenda vuole che lo stesso padre della medicina fosse in prima fila nel cercare di arginare l'epidemia che affliggeva Atene. Un morbo che, ancora una volta, veniva da lontano: Tucidide riferisce che i primi casi erano avvenuti in Etiopia, poi il contagio si era diffuso in Egitto e in Libia e, infine, aveva raggiunto il porto ateniese del Pireo.

Il racconto tucidideo sta alle origini di tutte le grandi rappresentazioni letterarie della peste, fino a I promessi sposi di Alessandro Manzoni e oltre. Lo storico sottolinea lo sgomento e il terrore degli uomini: «Nulla potevano i medici che non conoscevano quel male e si trovavano a curarlo per la prima volta – ed anzi erano i primi a caderne vittime in quanto erano loro a trovarsi più a diretto contatto con chi ne era colpito –, e nulla poteva ogni altra arte umana: recarsi in pellegrinaggio ai santuari, consultare gli oracoli. Tutto era inutile».

Alla fine, al di là dell'estremo e concreto realismo descrittivo, ciò che impressiona nelle pagine tucididee è soprattutto la finissima attenzione ai risvolti psicologici e sociali dell'epidemia. La peste, ci dice lo storico, mette a rischio non solo l’esistenza fisica degli individui, ma anche i valori e le norme della società.

Ci si sente in balia di forze oscure, incapaci di reagire razionalmente ma, proprio per questo, liberi di abbandonarsi a comportamenti irrazionali. Un'irrazionalità che produce anche l'immancabile caccia all'untore: ad Atene si diffuse la voce che erano stati gli spartani ad avvelenare i pozzi del Pireo (così come nel Trecento si attribuiva la colpa della peste agli ebrei). Speriamo solo, nei prossimi mesi, di non avere bisogno di un altro Tucidide che ci racconti la psicosi del coronavirus.

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