Il Muro di Berlino dello sport e il grande inganno degli atleti dell’Est
Atleti straordinari. Indistruttibili. Invincibili. Che si erano imposti in tutte le discipline, a partire dal quelle olimpiche. Erano gli alfieri della guerra fredda dello sport, con un’arma segreta: il doping
di Dario Ceccarelli
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Erano due mondi separati anche nello sport. Quando 30 anni fa, il 9 novembre 1989, un arcigno e confuso portavoce del Partito comunista tedesco orientale, Gunter Schabowski, diede il via libera all’apertura del muro di Berlino, anticipando per sbaglio quella che era solo una intenzione dei suoi capi, si aprì anche una breccia su un mondo che fino a quel momento era rimasto misterioso e affascinante per i suoi eccezionali risultati: quello degli atleti dell’Est.
Atleti straordinari. Indistruttibili. Invincibili. Che si erano imposti in tutte le discipline, a partire dal quelle olimpiche. Velocisti, ginnasti, lanciatori del peso e sollevatori, discoboli. Ma anche ciclisti, calciatori, nuotatori, boxeur. Non c’era disciplina dove questi atleti, diventati nel dopoguerra ambasciatori e testimonial del Sistema Socialista, non spiccassero per qualità tecniche e volontà di ferro.
Quel Muro lungo 155 chilometri e alto tre metri e mezzo, fatto costruire nella notte tra il 12 e il 13 agosto del 1961 da 15mila militari, aveva anche diviso l’idea stessa dello sport. Da attività ludica e agonistica, a scontro tra due diverse concezioni del mondo. La meglio gioventù dei Paesi comunisti opposta a quella, “corrotta e materialista”, del mondo occidentale. Una seconda guerra fredda combattuta negli stadi olimpici e nei velodromi, nelle piscine e sui campi di calcio. Vincendo nello sport , questo il messaggio sottinteso, ribadiamo quanto il nostro modello sia superiore al vostro. Il denaro e la gloria non ci interessa. Roba da capitalisti. Anche in campo noi siamo il Sole dell'Avvenire.
Se i successi dell'Unione Sovietica non sorprendono, anche per le enormi dimensioni del Paese, a colpire è la Germania dell’Est, che contava circa 18 milioni di abitanti negli anni Ottanta. Una vera potenza, sempre in primo piano in qualsiasi sport con un impressionante bottino di risultati: tra il 1961 e il 1987, la Ddr conquista 160 medaglie d’oro alle Olimpiadi e 3500 titoli internazionali. Un bilancio sontuoso che da fiore all'occhiello ben presto muterà in un'altra vergognosa macchia, indelebile per giunta.
Quello imposto era infatti un modello costruito sulla menzogna del doping. Grazie alle prime denunce fatte da atleti andati all’Ovest, tutto il castello va a pezzi rivelando che dietro a quelle formidabili vittorie c'è una altrettanto formidabile organizzazione di Stato, controllata dalla Stasi (la polizia interna), che grazie a un programma di doping sistematico altera le prestazioni degli atleti.
Le denunce piovono a cascata. Da quella della nuotatrice Cristiane Knacke, prima sotto il minuto nei 100 farfalla, a quella di Brigitte Berendonk, ex discobola, moglie del biologo Tener Franke.
Una inchiesta successiva ha dimostrato che circa 10mila atleti, anche minorenni, furono dopati con pesanti conseguenze per la salute. Secondo i magistrati del tribunale di Berlino il doping di Stato durò dal 1970 al 1989 con una denominazione quasi militare: “Piano di Stato 14.25”, una “Spectre” dello sport guidata da Manfred Ewald, presidente del comitato olimpico della Ddr, una sorta di gelido Dottor No dell’organizzazione. Fa impallidire la testimonianza di Heidi Krieger, campionessa europea nel lancio del peso, che a furia di ormoni, a fine carriera cambia sesso e diventa uomo, un uomo di nome Andreas.
«Alle ragazzine - racconta lo stesso Andreas - venivano dati talmente tanti steroidi che alla fine si ritrovarono imprigionate in corpi da uomini. Io fui tra queste. Mi fu sottratta la decisione di trovare la mia identità di genere. Lo hanno fatto senza interpellarmi, disinteressandosi di ciò che sarebbe stato di me. Questo non lo perdonerò mai».
Tutta farmacia del Diavolo? Una riscrittura troppo severa della storia? Giorgio Rondelli, ex mezzofondista e allenatore di atletica leggera, attenua solo in parte la condanna. «Bisogna fare chiarezza. Dal punto di vista della salute è stata una vicenda terribile. In quegli anni fu introdotto il doping scientifico e sistematico. Un doping capillare che alterò i risultati sportivi. Questo è innegabile. Quello che invece va salvato, è il modello di preparazione sportivo. Un modello che ha fatto scuola, sia per lo studio delle metodiche che per la disciplina. Tutto questo non va buttato via, anzi».
È vero: alcuni maestri dello sport sono stati dei precursori. Pensiamo alla nazionale dell'Urss di calcio del colonnello Lobanowsky, seconda agli Europei del 1988 battuta dall'Olanda di Van Basten e Gullit. Uno dei simboli di quella squadra era il fantasista Alexander Zavarov che, dopo quell'Europeo, approdò alla Juventus in cerca di un erede di Michel Platini, l’indimenticabile pupillo di Gianni Agnelli.
Sono anni di declino per la Juventus. Domina il Napoli di Maradona, sta per splendere il Milan di Sacchi, cui seguirà l'Inter di Trapattoni con lo scudetto dell'89. La Juventus si guarda in giro ed è incuriosita dai calciatori russi. È la nuova frontiera dei Protassov e dei Michailichenko.
La Perestroika del pallone fa breccia anche in Italia. Zavarov, figlio di operai, arriva a Torino con una strana etichetta di pseudo intellettuale. I giornali ci vanno a nozze dipingendolo come un avido lettore di fantascienza e e saggistica. Intenditore di musica classica e anche giocatore di scacchi. Tutto bello e affasciante peccato che in campo lo “Zar” non convinca.
«Non diceva una parola di Italiano», racconta il suo ex compagno Pasquale Bruno, detto “O animale” per la sua cattiveria agonistica. «Durante le trasferte in pullman si metteva sempre in fondo con Laudrup, un altro che si faceva i fatti suoi. Insomma, era un isolato, e questo era un problema…».
Sembra una storia d’altri tempi. Anche un po' fantozziana. Zavarov, pur essendo un fuoriclasse, guadagna pochissimo. Il suo stipendio dalla Juventus va alle casse del Partito comunista sovietico che, bontà sua, gli gira due milioni (di lire). Con dei buoni spesa, aggiunti come “integrativo”, Zavarov va spesso al supermercato con la sua Duna. Anche lui, come tutti i giocatori bianconeri, deve guidare una Fiat. È un obbligo da contratto. Alla Juve su questo non si transige. Tra difficoltà linguistiche e qualche vodka di troppo, Sacha non sfonda: in bianconero realizza solo 7 gol in 60 partite. Finisce in Francia al Nancy. «Mai più giocatori russi», commenta acidamente Gianni Agnelli, deluso anche dal bielorusso Sergej Alejnikov, centrocampista baffuto diventato poi allenatore di varie squadre giovanili.
Isolamento, difficoltà di adattamento, scarsa capacità di relazionarsi. Verso squadre occidentali sono partiti con alterne fortune anche Blochin, Dassaev, Baltacha, Rats. Ma ci vorranno diversi anni per abbattere questo “muro” di incomunicabilità e si affacci una nuova generazione, quella dei Pavel Nedved (Juventus e Lazio ) e degli Andriy Shevchenko (Milan) che diventerà protagonista nel calcio italiano a cavallo del nuovo secolo
Dopo il calcio, è il ciclismo, a migrare in massa. Un esodo quasi biblico. Nel gennaio del 1989, quindi prima della caduta del Muro, arriva in Italia una formazione di 14 elementi scelti della nazionale sovietica che debutta nel mondo professionistico sfatando il mito del ferreo dilettantismo dell'est. Una svolta storica gestita dalla squadra Alfa Lum di San Marino con la regia, neanche troppo occulta, di Ernesto Colnago, l’artigiano che da sempre produce biciclette per il ciclismo sovietico.
Una squadra con fuoriclasse come Konychev, Tchmil, Zinoviev, Pulnikov, Ugrumov e uno scalatore come Sergei Soukhoroutchenkov, nome impronunciabile ma con un palmares straordinario. Sono tutti corridori dell’Armata Rossa. Come racconta Primo Franchini, direttore all'epoca dell'Alfa Lum, c'era molta curiosità. «E anche attesa perchè erano tutti dei grandissimi campioni. Li abbiamo presi in Liechtenstein mentre la Juve concludeva l’acquisto di Zavarov. I dirigenti bianconeri, credendo che questi corridori costassero come i calciatori, erano senza parole. Pensavano: Se questi ne prendono 14 in un colpo solo chissà quanti soldi hanno da spendere! In realtà noi ai dirigenti sovietici abbiamo dato un miliardo e mezzo. Garantivamo gli stipendi a tutti, anche se poi i corridori venivano pagati dal partito. Ma era persone semplici. Quando sono andato a prenderli alla Malpensa quasi non avevano bagaglio: ognuno aveva solo una sacca da palestra. Impensabile ai giorni nostri».
«C'era solo un problema» prosegue Franchini. «Erano abituati a ubbidire sempre. A correre in base a schemi e comandi precisi. Non prendevano mai iniziative. Disciplinatissimi, anche troppo. Alla mattina facevano l’alza bandiera. Sono matti, pensai. Ad un certo punto, mi stanco del traduttore, e mi metto ad imprecare in dialetto bolognese. Va bene le gambe, ma dovevano far andare anche la testa. Basta ordini, qui non c'è più il Partito… Per capire, mi capirono… Ma per avere dei risultati abbiamo fatto più fatica del previsto anche se poi molti di questi corridori fecero strada imponendosi dovunque».
Ebbene, questa fu l’Armata Rossa a pedali del nostro ciclismo. Che fece da apripista alla successiva generazione dei corridori dell'est approdata in Italia. Quella di Eugeni Berzin (maglia rosa al Giro d'Italia del 1994) e Pavel Tonkov, vincitore del Giro nel 1996. Altri tempi. Ormai del Muro erano rimasti solo i cubetti da regalare come souvenir.
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