Il no al Ceta e la caccia al consenso più miope
di Giorgio Barba Navaretti
3' di lettura
Volar basso a caccia di consenso è une esercizio pericoloso. Si perde prospettiva e si rischia lo schianto contro qualche improvviso ostacolo. Volar basso è quanto sta facendo il ministro dello Sviluppo economico e del Lavoro, Luigi Di Maio, con il suo irrigidimento sul Ceta (“Eu-Canada Comprehensive and Economic Trade Agreement”, cioè il trattato di libero scambio Europa-Canada). La perdita di prospettiva è triplice. Primo. Un voto negativo del Parlamento italiano significherebbe un affossamento dell’accordo a livello europeo. Per la prima volta la ratificazione di un accordo commerciale, normalmente di stretta competenza degli organi europei (la politica commerciale non è decisa dagli stati nazionali), è stata devoluta ai parlamenti nazionali. Un accordo definito per questo “mixed agreement”.
Una scelta fatta dalla Commissione per mitigare le accuse di centralismo del montante populismo all’Europa, soprattutto su un dossier così sensibile ed emotivo come la politica commerciale. La non ratifica del nostro Parlamento nazionale, su un dossier già approvato dal Parlamento europeo, significherebbe l’impossibilità in futuro di trovare una sintesi adeguata tra la centralità decisionale europea e sovranità nazionali. Renderebbe la Commissione assai riluttante a coinvolgere nuovamente i parlamenti nazionali in processi di questo genere. Un grave autogol per un governo sovranista che richiede in Europa una maggiore attenzione alle esigenze degli stati membri. Verrebbe rivendicata la priorità e l’autorità nazionale, ma si sancirebbe allo stesso tempo l’inconciliabilità di questa autorità con le scelte collettive europee. La sintesi tra istanze nazionali ed Europa si può trovare solo lavorando sui dossier e cercando eventuali possibili compromessi. Un volto parlamentare conto il Ceta, l’esercizio di quello che di fatto sarebbe un diritto di veto, rende impossibile questa sintesi.
Secondo punto di vista. L’affossamento di un accordo di apertura commerciale come il Ceta è un magnifico carburante al protezionismo trumpiano. La dimostrazione che Trump non è solo, che oggi c’è anche una nuova via italiana al protezionismo. E la dimostrazione che di fatto è possibile violare il principio della politica commerciale comune dell’Europa, bloccando qualunque futuro accordo commerciale. L’attivismo europeo in questa direzione permette invece di rafforzare gli scambi commerciali ed è l’unica via possibile alternativa all’ottusa guerra commerciale del presidente degli Stati Uniti, data la debolezza delle istituzioni multilaterali.
Terzo punto di vista. Non ratificare un accordo con un paese civile, rispetto al quale abbiamo comunque un forte surplus commerciale, ossia un accordo con molti vantaggi e davvero pochi costi per noi, è veramente incomprensibile e senz’altro dannoso per il paese. È stato bene evidenziato su questo e in altri giornali, come per la gran parte dei nostri prodotti l’accordo significhi maggiore tutela attraverso le denominazioni di origine e l’apertura di un mercato molto importante. Se alcuni interessi, tra l’altro davvero minoritari, non fossero davvero adeguatamente tutelati, il Governo dovrebbe in un secondo tempo negoziare modifiche parziali degli accordi, che tengano anche conto dei nostri produttori più vulnerabili. Ma sacrificare l’interesse generale per tutelare l’interesse particolare vuol dir davvero avere la vista corta.
Infine, gli ostacoli improvvisi. In casi come questi prima o poi la verità viene fuori. Se gli interessi dei più, anche se silenziosi e meno organizzati, vengono colpiti, una narrazione fondata su false verità dopo un po’ diventa unicamente e solo una palese menzogna. E dalla caccia al consenso non rimarrebbe che un pugno di mosche.
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