Il nuovo Qe non potrà durare a lungo: mancano i titoli sul mercato
Gli analisti: in 10 mesi circa scarseggerebbero i Bund, salvo modifiche ai vincoli
di Maximilian Cellino
3' di lettura
Qualcuno lo ha definito un quantitative easing all’infinito e in effetti la decisione di lasciare per il momento in bianco la data di chiusura per gran parte delle mosse espansive adottate è uno degli elementi che ha sorpreso e colpito in modo favorevole i mercati dell’ultimo Consiglio Bce che si è tenuto a Francoforte. Molti analisti dubitano però che il nuovo round del programma di riacquisti di asset pubblici e privati che sarà riattivato a partire da novembre al ritmo di 20 miliardi al mese possa protrarsi particolarmente a lungo, forse addirittura neanche per un anno. A meno che non vengano adottati accorgimenti tecnici in grado di scongiurare la penuria di titoli ritirabili dal mercato.
Durante la conferenza stampa il presidente Mario Draghi è apparso rassicurante sul tema, rispondendo a precisa domanda dei giornalisti che esiste un «margine considerevole» perché il Pspp (Public sector purchase programme, cioè la fetta che riguarda i titoli di Stato e che potrebbe raccogliere circa 15 dei 20 miliardi previsti) possa procedere senza intoppi. La questione gira in effetti attorno a due elementi: il fatto che gli acquisti siano distribuiti fra gli stati in base alle loro quote di partecipazione al capitale Bce (capital keys) e l’impossibilità da parte dello stesso istituto centrale di ritirare dal mercato oltre un terzo dell’ammontare di ciascuna emissione.
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Ed è proprio combinando questi due vincoli che gli analisti di Jefferies International arrivano per esempio a stimare che, a meno di un loro futuro rilassamento, nel giro di appena 10 mesi i Bund disponibili sul mercato inizierebbero a scarseggiare. Per Paesi Bassi e Finlandia il possibile stop agli acquisti potrebbe scattare ancora prima, rispettivamente fra 5 e 9 mesi, ma ovviamente è la Germania che preoccupa maggiormente: per il peso specifico (e politico) esercitato dal Paese; per il fatto che la Bce ha concentrato lì una bella fetta degli acquisti di bond sovrani (a fine agosto valevano 519 dei 2.171 miliardi complessivi) e anche per il ruolo rilevante che hanno sul mercato gli stessi Bund come strumento free risk. Una funzione chiave quest’ultima per molti asset manager chiamati a diversificare le proprie attività di impiego dei capitali, che è stata sottolineata più volte anche dalla Commissione europea.
Per risolvere la questione, al netto di un rilassamento delle regole sulla distribuzione di acquisti in base alle quote di capitale, sarebbe in fondo sufficiente aumentare il quantitativo detenibile in portafoglio di ogni singolo bond. Aumentare il limite al 40%, ipotizza Jefferies, allungherebbe a circa due anni e mezzo la durata di un piano condotto al ritmo di 20 miliardi come stabilito giovedì dall’Eurotower, mentre raggiungendo il 50% ci si potrebbe spingere addirittura fino a 5 anni e mezzo. Il problema è che un intervento per innalzare il limite, oltre che comportare rischi di eccessiva concentrazione in una sola mano del debito di un emittente, potrebbe contribuire ad aumentare ulteriormente l’irritazione che alcuni Paesi (e i banchieri centrali che li rappresentano) faticano a nascondere per la nuova ondata di misure espansive decise sotto la presidenza Draghi.
Due fra i tradizionali oppositori delle politiche monetarie ultraespansive all’interno dell’Eurozona non hanno in effetti tardato a manifestare pubblicamente il proprio dissenso. In un’intervista alla Bild il presidente della BundesBank, Jens Weidmann, ha sottolineato come «la Bce sia andata oltre il proprio mandato» e il pacchetto di misure deciso il giorno precedente «non fosse necessario». Qualche ora prima era stato il collega olandese, Klaas Knot, ad alzare il tiro attraverso un inusuale comunicato in cui si puntava il dito proprio sul riavvio del piano di acquisti, definito «sproporzionato rispetto alle attuali condizioni economiche» e dalla «dubbia efficacia».
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Del resto, in base alle indiscrezioni che sono trapelate nelle ore successive al Consiglio, alle ormai consuete critiche del duo olandese-tedesco (e a quelle dei rappresentanti di Austria ed Estonia) si sarebbe stavolta aggiunta il significativo dissenso da parte del governatore francese, Francois Villeroy de Galhau, mentre anche il capo economista e membro esecutivo del board Benoît Cœuré e la tedesca Sabine Lautenschlaeger non avrebbero mancato di manifestare la propria contrarietà.
Un’opposizione senza precedenti avrebbe quindi salutato Draghi alla sua penultima apparizione alla guida del Consiglio: un avvertimento non da poco per Christine Lagarde, che si appresta a sostituirlo in un momento chiave per l’economia europea.
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