Il paradosso della modernità tra individualismo e comunità
Una riflessione sui lati oscuri che scaturiscono dall’epoca in cui viviamo e che ci sottopongono a delle sfide inedite
di Gianluca Rizzi *
4' di lettura
Nel mio ultimo articolo ho affrontato il tema del time management ponendolo in relazione con il suo alter ego, ovvero il processo di decision making. Detto in altri termini: gestire bene il tempo significa prendere buone decisioni.
Nel “rimuginio” tipico della quotidianità professionale di un mestiere come quello del sottoscritto (consulente e formatore), che impone tanto pensiero, sono tornato sulle riflessioni della scorsa volta sollecitato da una nuova lettura di De Botton, saggista e divulgatore di fama internazionale.
Nella sua ultima pubblicazione “Come sopravvivere alla modernità” raccoglie una sfida importante, ovvero fare una sistematica e, per certi versi, enciclopedica riflessione sui lati oscuri che scaturiscono dall’epoca in cui viviamo e che ci sottopongono a delle sfide di fronte alle quali spesso siamo inermi semplicemente perché inedite, se viste nella prospettiva dello storico.
Nella millenaria storia dell’essere umano, il focus è sugli ultimi 150 anni circa, un tempo quindi risibile se paragonato con la storia da cui veniamo. Se poi consideriamo che gli ultimi circa 25/30 anni hanno dato un'ulteriore accelerazione a questo processo di evoluzione dello scenario in cui viviamo, dobbiamo concepirci come bambini alle prese con un mondo nuovo.
Prendere decisioni, per come l'ho inteso nella mia precedente riflessione, effettivamente presuppone come sostrato culturale e psicologico una buona dose di fiducia non tanto in se stessi quanto nelle possibilità dell'essere umano di incidere nel proprio percorso, sia di vita in senso più ampio, ma anche più puntualmente nel proprie attività quotidiane.
Il “rimuginio” è partito quando mi sono imbattuto in una delle prime considerazione del libro: “Il segno più evidente della modernità è forse il venir meno della fede, della fiducia nell'intervento divino negli affari terreni. In tutte le epoche precedenti aveva dominato la convinzione che le nostre vite fossero, almeno in parte, in balia degli dei o degli spiriti, che si potevano influenzare con preghiere e sacrifici e richiedevano complesse forme di culto e obbedienza. Da allora, ci siamo dedicati sempre più a comprendere gli eventi naturali attraverso il filtro della ragione. Niente più presagi o rivelazioni, maledizioni o profezie: la chiave per interpretare il futuro si trova nei laboratori, non nei luoghi di culto.” In una parola, secolarizzazione.
E qui si verifica una sorta di paradosso. Certamente non da un giorno all'altro ma nell'arco di qualche decennio, visto che si tratta sempre di un processo culturale, abbiamo, come genere umano in un contesto più tipicamente occidentale ma non solo, cominciato a percepirci sempre più liberi di scegliere, decidere, agire e determinare i nostri percorsi. Questa nuova dimensione di libertà ha alimentato l'idea della responsabilità come attitudine a interagire in modo attivo e proattivo con il contesto, personale e professionale, tentando sempre di plasmarlo secondo i nostri desideri e le nostre aspirazioni.
Questo meccanismo ha alimentato però anche il lato oscuro della responsabilità, normalmente intesa come l'idea che successo e fallimento rappresentino delle conseguenze inevitabili e inalienabili del proprio agire. L'idea stessa di meritocrazia viene codificata in tempi relativamente recenti e, a proposito di questo, sempre De Botton dice che si tratta di “un sistema che dovrebbe consentire a ciascuno di superare gli sbarramenti di classe per occupare il posto che merita nella società. Tradizioni e background famigliare non dovrebbero più costituire un limite a ciò che l'individuo può ottenere. Il concetto di meritocrazia però, porta con sé una fregatura: se davvero crediamo in un mondo nel quale chi merita di arrivare in cima arriva effettivamente in cima, di conseguenza dobbiamo credere in un mondo nel quale chi è in fondo merita di essere in fondo”.
Ora, tenendoci lontani dalla dialettica stantia e sterilmente polarizzante tra i sostenitori del “successo” come modello e i promotori del “fallimento” come apertura alla fragilità e considerando che la meritocrazia merita un approfondimento a parte perché tanto si è dibattuto e scritto intorno a questo concetto, resta una cosa, a mio modesto avviso, ovvero un piano inclinato che ci fa inesorabilmente scivolare tutti verso una sottile e moderna forma di “schiavitù” che deriva da quella libertà prima citata (eccolo il paradosso): nella misura in cui abbiamo interiorizzato l’idea che in fondo molto dipende da noi, finiamo per essere schiavi del nostro continuo, alle volte eroico, altre volte penoso, sforzo di auto-realizzazione nel senso inteso dalla modernità.
Il tassello troppo spesso trascurato in questo scenario connotato di un individualismo che mostra sempre più le sue derive oscure, è quello rappresentato dalla comunità. Quella stessa comunità che era pronta e disponibile a indulgere nei confronti di coloro che fallivano nell’era premoderna, credendo che un ruolo cruciale nelle sorti umane lo giocasse anche il soprannaturale. Quella stessa comunità di cui le persone si sentivano orgogliosamente parte esprimendo un'identità di gruppo che ridimensionava, in senso positivo, il successo del singolo ascrivendolo in parte anche al contributo della comunità stessa.
Mi rendo conto che la mia potrebbe sembrare una riflessione oziosa o peggio “anti moderna” ma, al netto della piena adesione da parte mia a quanto di buono la modernità ha portato in termini di progresso scientifico e tecnologico (ma non solo), non posso non riferire queste considerazioni al ruolo e al valore che le comunità (penso in particolare a quelle aziendali con cui e per cui lavoro quotidianamente) possono rivestire e rappresentare nel proseguire il nostro percorso evolutivo, a maggior ragione in un momento storico come quello attuale.
*Partner di Newton S.p.A.
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