Il percorso morbido e colorato delle pellicce ecologiche
Un capo tradizionale si reinventa. Festoso, autoironico, variopinto, diventa uno strumento per giocare con lo stile con forme sempre meno rigide e binarie.
di Letizia Muratori
4' di lettura
C'era una volta un bambino che aveva paura delle pellicce chiuse in un armadio, pensava fossero: il lupo. Come spesso capita con la paura: in lui era pari all'attrazione fortissima per quella tana. E così si teneva sempre alla giusta distanza dal lupo, ma di fatto non vedeva l'ora che spalancassimo quello scrigno carico di mistero e terrore, per poi scappare in corridoio. Gridava, rideva, a volte piangeva: era un gioco. Ho raccontato l'incipit di questa innocua favoletta nera, perché racchiude almeno un paio di elementi utili a ripercorrere il tema, dibattuto da decenni e in parte, grazie al cielo, superato, della pelliccia – vera o finta che sia.
Il primo riguarda l'identificazione della pelliccia con l'animale, vivo. Una specie di rianimazione – in quel caso non era certo un lupo, ma visoni rasati. Il confronto con la pelliccia oltre che infantile, ossia legato all'immaginazione di un bambino, mostra sempre la sua radice primitiva: pensiamo agli innumerevoli riti di iniziazione e di passaggio legati al culto dell'animale totemico, dell'animale guida, al fatto che nelle società nomadi e tribali portarne addosso la pelliccia avviasse l'assimilazione. Nemmeno quel bambino della fine degli anni Ottanta era convinto che ciò che aveva davanti fosse un vero lupo, ma la minaccia della messinscena era comunque efficace, o meglio, reale.
Il secondo elemento è, appunto, il gioco, lo scambio di vite e di poteri. Il fatto che indossare una pelliccia non è come indossare un qualsiasi indumento, è un cambiare pelle. Dunque, più che di travestimento o di copertura termica, si tratta di una mutazione che ridà vita alla morte, resuscita e trasforma. Ma, a monte, la morte c'è. E non è mai naturale. Una vera pelliccia appesa, custodita nell'armadio, è quanto di più vicino alla morte possiamo sperimentare in vita: ucciso il corpo, resta l'anima attaccata al pelo e invecchia, se non trova dove e come reincarnarsi.
La pelliccia vera ha sempre avuto questo retrogusto macabro e selvaggio, appena appena addomesticato dalla maestria artigianale, c'era un sospetto di violenza perfino nelle società che condonavano la crudeltà verso gli animali, tutti, uomo compreso. Il mondo della pelliccia era spietato, classista, non si poneva proprio il problema della sofferenza, se il fine erano benessere e apparenza. Al tempo stesso, questi indumenti erano un ricettacolo di odori e di vite rimescolate. Pensiamo alla celebre, potente, confessione di Pier Paolo Pasolini: “Questo odore della povera pelliccia di mia madre è l'odore della mia vita”. Personalmente appartengo a una generazione che ha fatto in tempo ad annusare le pellicce vere, indossate quotidianamente, quindi pregne di odori stratificati. Pellicce portatrici di essenze cui si faticava a ritrovare la sorgente, poteva essere un miscuglio di pioggia, umidità e profumo, di rossetto e di lacca, di bestiola e di persona. Pellicce tenute al riparo l'estate, oppure smontate e rimontate dal pellicciaio secondo dettami più moderni: alleggerite, come si diceva.
Ho odorato pellicce sontuose, ma anche colli di volpe montati sui cappotti, soluzioni più modeste, che raccontavano un'idea del lusso popolare. Non solo, ho affondato il naso nei capi a pelo lungo, nei celebri Mongolia dei Settanta, ho passato la manina sulla pelle rasata dei capi in cavallino, spesso mai usati, cimeli tenuti negli scomparti irraggiungibili del guardaroba, fantasmi che segnavano il passaggio della ragazza a quasi signora, regali ricevuti per i diciotto anni. Ho visto pendere guanti dalle tasche e foulard infilati nei visoni un po' scampanati delle nonne. Mi sono mascherata, ebbene sì, a Carnevale, indossando boa e vecchie stole. Insomma, non mi manca l'esperienza, ma quando Marina Ripa di Meana combatteva le sue battaglie nuda, contro l'uso di pelli di foca, ero ancora molto giovane, dunque la mia esperienza con la pelliccia è solo e rigorosamente sintetica, se fatta con il cotone: ecologica.
Come si intuisce dalle immagini in pagina, il mondo consapevole, e compassionevole nei confronti degli animali, disgustato dalla brutalità degli allevamenti, ha mantenuto e, anzi, ha potenziato un aspetto originario della pelliccia: il gioco, il divertimento, l'eccesso, l'aumento di volume che ci rende forme meno antropomorfe, meno rigide, se vogliamo, pure meno binarie. Forme molto più autoironiche e ibride, soprattutto inedite. Il finto ha portato allegria, rischio e colore laddove, anche nei capolavori della pellicceria tradizionale, c'era sempre l'ombra della forza. A chi sostiene che indossare pellicce eco sia comunque dare il cattivo esempio, il surrogato di una pessima abitudine, rispondono da sole queste immagini. Quel che vediamo non è certo l'imitazione quanto più possibile realistica della pelliccia vera, ma tutt'altro: uno spettacolo che rimanda perfino al peluche, e agli animali fantastici delle fiabe. Dunque dalla pelliccia è stato preso ed ereditato il meglio, lasciando il resto al passato e, aggiungo, alla legittimità di ricordarlo, di non cancellarlo con un colpo di spugna ipocrita.
Il coat con tutti gli accessori coordinati di Dolce&Gabbana non può non risultare anche un omaggio a un grande della pellicceria: Carlo Tivioli, ai suoi mantelli di volpe e di zibellino degli anni Ottanta, con giusto un tocco di Cruella de Vil che non guasta. Citazione, ma anche invenzione e gioco, di questo ci parlano le immagini in pagina. Stesso discorso per la stola di Miu Miu e per la pantofola di Bottega Veneta portata sotto lo smoking. Divertito e divertente è il look di The Attico, tutto lana a pelo lungo e colore. Mentre sempre agli anni Ottanta si rifà il bomber fucsia di Tom Ford. Di Lorenzo Serafini, per Philosophy, è il cappottino con ampie spalle, ma più che all'era dell'edonismo sfrenato, rimanda alle dive degli anni Quaranta, a una delicata polvere di stelle e, se proprio vogliamo continuare la caccia agli antenati, quella di Serafini è una spalla più glam rock che da donna in carriera. Infine, c'è il maglione a fi li lunghi di Dior: artico e post apocalittico. Dunque, questi esempi ci parlano di un riscatto di stile tra eco e rétro, dove l'animale certamente non soffrire, né arreca sofferenza, ma si maschera, si confonde, trascende epoche, regni e generi, con divertimento.
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