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Il «peso» dimenticato della Fca sul Pil italiano

di Paolo Bricco

Pietro Gorlier (Agf)

2' di lettura

Andiamo al cuore delle cose. Lasciamo stare gli incarichi aziendali e gli organigrammi. Quello che conta è chi dice le cose e che cosa dice. Il capoazienda della Fca in Italia (e in Europa) si chiama Pietro Gorlier. E Pietro Gorlier ha scritto in una lettera – cancellando un incontro con la politica locale piemontese, finalizzato all'illustrazione del piano per la 500 elettrica a Mirafiori - parole molto pesanti: «Negli ultimi giorni lo scenario è stato significativamente modificato da interventi sul mercato dell'auto in discussione all'interno della legge di Bilancio, che a nostro avviso alterano l'intero quadro d'azione all'interno del quale il piano per l'Italia era stato delineato».

Il riferimento esplicito è l'ipotesi di tassazione delle vetture più inquinanti, con il meccanismo fiscale dell'ecomalus. L'ecomalus verrà probabilmente cancellata – conservando invece l'ecobonus per le macchine ibride ed elettriche – da Luigi Di Maio, sorpassato in curva dal più pragmatico Matteo Salvini, da subito contrario a questa misura. Un Di Maio, per questo, in affanno nel suo rapporto con il mondo delle imprese. Ma questo riguarda i rapporti all'interno della maggioranza. Quello che conta sono le parole di Gorlier. In una vicenda che è destinata a rappresentare un ulteriore capitolo nel rapporto complicato e sfuggente fra la vecchia Fiat-nuova Fca e il suo Paese di origine, ogni ipotesi di rimodulazione del piano da 5 miliardi di euro va infatti sottoposta a un doppio livello di lettura.

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Esiste un primo livello di lettura: c'è il giudizio sul piano in sé, con i 5 miliardi di euro che possono sembrare tanti o che possono sembrare pochi per un settore ad alta intensità di capitale come l'automotive industry, con un progetto di elettrificazione della gamma che può apparire graduale e timido oppure convincente e ben delineato, con una capacità strutturale della Fca a operare questo mutamento che può risultare adeguata agli standard internazionali oppure dimezzata dai gap tecnologici e finanziari strutturali del gruppo nato dalla fusione fra due società povere come Fiat e Chrysler. Proviamo, però, ad astrarci da questo primo livello di lettura. E passiamo al secondo livello di lettura. E, cioè, all'effetto profondo e pervasivo che la Fca ha in sé e per sé – vista la sua antica consistenza italiana – sulla nostra economia nazionale. E questo peso è un peso pesante: secondo le stime econometriche della Svimez, ancora adesso la quota di Pil direttamente o indirettamente riferibile al gruppo – in questo caso torinese, nel senso della sua accezione più italiana - è intorno al 3 per cento. Non è poco. È tanto. È per questo che ogni ipotesi di rimodulazione e di riconsiderazione del piano – che può piacere o non piacere – costituisce in ogni caso una ulteriore ombra sul destino manifatturiero del Paese.

La Fca, nei suoi equilibri globali, non ha probabilmente bisogno dell'Italia. Ma l'Italia ha bisogno della Fca. Si possono criticare o apprezzare le nuove policy sulle auto più o meno inquinanti. Si può comprendere oppure valutare negativamente la rapida retromarcia del Governo. Ma colpisce l'inconsapevolezza di che cosa sia la Fca nella realtà effettuale del contesto italiano.

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