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Il petrolio a 20 dollari ferma le trivelle. Ecco perché è un rischio per tutti

Una chiusura affrettata dei giacimenti rischia di rovinarli in modo irreversibile. Quando il mondo guarirà dal coronavirus potrebbe dover fronteggiare una crisi energetica

di Sissi Bellomo

Non solo coronavirus dietro al crollo del petrolio

3' di lettura

Non c’è più tempo per la diplomazia del petrolio. Il crollo dei consumi e dei prezzi ha ormai assunto dimensioni tali da rendere superfluo ogni tentativo di accordo tra i grandi produttori: con il Wti sotto 20 dollari al barile – e valori molto più bassi sul mercato fisico – alcune compagnie hanno alzato bandiera bianca, cominciando a fermare le trivelle. Oggi, martedì 31 marzo, il prezzo del petrolio prova a rimbalzare dopo i minimi: il greggio Wti del Texas segna 21,22 dollari con un rialzo del 5,6%; più contenuto l’aumentodel Brent a 23,07 dollari (+1,23%).

Mentre metà della popolazione mondiale è chiusa in casa per il coronavirus, la domanda petrolifera – che fino a poco tempo fa superava 100 milioni di barili al giorno – si è ridotta di un quarto, dicono le ultime stime degli analisti, ormai aggiornate con cadenza quotidiana come le cifre sui contagi. Nemmeno la crisi del 1929 aveva provocato un crollo del genere.

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Le raffinerie hanno frenato in modo brusco e ora si registrano le prime chiusure di impianti (in Italia, ma anche in Canada e in Sudafrica). Il Pakistan ha vietato l’importazione di carburanti, mentre i serbatoi di stoccaggio sono vicini a traboccare.

A livello globale la capienza in terraferma si esaurirà nel giro di poche settimane , ma in alcune aree geografiche questo è già accaduto e il greggio non trova più vie di uscita. Nemmeno se i produttori sono disposti a pagare pur di liberarsene.

La Casa Bianca continua a spingere per un cessate il fuoco nella guerra dei prezzi: Donald Trump ha telefonato al presidente russo Vladimir Putin, concordando colloqui tra i ministri dell’Energia dei due Paesi. Ma qualunque cosa succeda, i tagli di produzione ormai stanno arrivando.

Sono tagli forzati, effettuati in molti casi da compagnie Usa, che – se proseguiranno in modo diffuso e disordinato – rischiano di rovinare i giacimenti, gettando i semi per la prossima crisi energetica. Quando il mondo sarà guarito dalla pandemia, il petrolio protrebbe non bastare o comunque essere troppo caro per alimentare la ripresa senza contraccolpi.

Il mercato si muove in territori inesplorati. I prezzi negativi sono ormai una realtà per alcuni greggi, poco pregiati ed estratti in zone isolate, ad esempio nel Wyoming. Il Western Canada Select, riferimento delle oil sands, vale meno di 4 dollari, negli Usa lo shale oil delle Midlands è sceso sotto 12 dollari e alune società di oleodotti (tra cui Plains All America, secondo Bloomberg) hanno esortato le compagnie a fermare la produzione: non si sa più dove mettere il greggio.

In tutto il mondo è già stata annunciata la chiusura a bocca di pozzo di almeno 900mila barili al giorno di produzione secondo Goldman Sachs, che prevede si possa arrivare a una riduzione dell’offerta di 5 milioni di barili al giorno: impossibile stimare quanti giacimenti chiuderanno, afferma la banca, ma il fenomeno «probabilmente è destinato ad alterare in modo permanente l’industria e la geopolitica dell’energia».

Anche sul mercato dei futures le quotazioni del barile scendono ormai senza freni. Il Wti è crollato fino a 19,85 dollari, il Brent ha subito ribassi superiori al 12%, toccando quota 21,69 dollari, in entrambi i casi il minimo da febbraio 2002.

C’è un forte incentivo economico a mettere da parte il greggio in attesa di tempi migliori. Il Brent ormai è in supercontango: un barile per consegna tra 12 mesi vale oltre 13 dollari in più rispetto a uno per pronta consegna, uno spread ancora più ampio di quello che nel 2008-2009 aveva incoraggiato l’accumulo di scorte ovunque, anche a bordo di petroliere.

Accade anche adesso, ma non è una soluzione alla portata di chiunque: i noli marittimi sono alle stelle e alcuni giacimenti sono troppo lontani dal mare (o mancano collegamenti con i porti).

Anche chiudere i pozzi, mettendoli in sicurezza, è costoso (oltre a mettere un’ipoteca sul futuro). Ma la situazione è così disperata che persino qualche grande società ha già iniziato a farlo: ad esempio Glencore, che ha rinunciato del tutto ad estrarre petrolio convenzionale in due giacimenti del Ciad.

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