Il petrolio resta scarso: le ragioni di una nuova possibile fiammata del prezzo
Gran parte del merito della riduzione dei prezzi a livello globale va attribuita al rilascio di oltre 80 milioni di barili di greggio dalle riserve strategiche nazionali Usa
di Marcello Minenna
6' di lettura
Mentre proseguono le convulsioni del mercato del gas europeo, quello del petrolio continua a beneficiare di una relativa tregua: il prezzo del West Texas Intermediate (WTI) USA è a 82 $ al barile, ai minimi dai picchi di 120 $ registrati a giugno, mentre il Brent di origine nord-europea è in lieve rimbalzo a 88 $, con un impatto evidente sui prezzi dei carburanti alla pompa. Gran parte del merito di questa riduzione della pressione dei prezzi a livello globale va attribuita al rilascio di oltre 80 milioni di barili di greggio dalle riserve strategiche nazionali USA (il 17% delle giacenze), che ha consentito di accrescere l'offerta giornaliera di quasi 1 milione di barili negli ultimi 3 mesi. Il rallentamento della congiuntura economica internazionale ha fatto il resto.
Il successo dell'iniziativa USA ha innalzato inevitabilmente la tensione con i Paesi produttori. Solo pochi giorni fa l'OPEC+ (il cartello dei principali produttori allargato alla Russia) ha deliberato una riduzione della produzione globale di circa 100.000 barili al giorno (b/g). De facto la misura non ha effetti concreti, ma annulla la decisione presa solo 2 mesi fa di effettuare un aumento simbolico in risposta alle richieste del presidente USA Biden in visita ufficiale in Arabia Saudita.Si tratta quindi di un chiaro messaggio politico agli USA: l'OPEC non è disposta a tollerare ulteriori interventi di manipolazione del prezzo del petrolio e risponderà con tagli alla produzione di carattere ritorsivo. La decisione dimostra inoltre il rinnovato peso dell'Arabia Saudita all'interno del cartello come unico vero swing producer in grado di intervenire significativamente sulla produzione, che è attualmente attestata a 98 milioni di b/g, vicina ai massimi assoluti di 102 milioni di b/g raggiunti a fine 2018.
I mutamenti strutturali post-pandemia del mercato petrolifero e la staffetta Usa-Arabia Saudita
I dati in Figura 1 consentono di visualizzare distintamente il cambio strutturale avvenuto nell'offerta petrolifera dopo il grande crash pandemico del 2020. Nel decennio precedente, la crescita della produzione era stata trainata dal boom dello shale oil USA (barre gialle), che aveva consentito di espandere l'offerta per oltre 12 milioni di b/g, mentre la produzione saudita (barre azzurre) era rimasta grosso modo costante, o addirittura in riduzione.
Nella fase di ripresa post-pandemica, i tassi di crescita dello shale americano si sono mostrati assai contenuti, per via delle condizioni finanziarie più restrittive e per gli alti costi del fracking. Lo shale oil infatti è per definizione un petrolio “pesante”, da sottoporre ad una elaborata procedura di raffinazione (il c.d. hydrocracking) che richiede la combustione di elevate quantità di gas naturale. Di conseguenza se il prezzo del gas cresce a dismisura rispetto al prezzo dello shale oil come sta accadendo, i costi di produzione possono superare i benefici derivanti dall'aumento (più limitato) del prezzo di vendita e non c'è convenienza ad aumentare la produzione.
Di conseguenza l'Arabia Saudita e la Russia hanno sostituito gli USA come Paesi leader nell'espansione dell'offerta, recuperando quel peso politico che si era indebolito durante la lunga fase espansiva del petrolio made in USA. Negli ultimi mesi, con il progressivo dispiegarsi delle sanzioni occidentali alla Russia, i sauditi sono diventati i dominus incontrastati del mercato, beneficiando di una rinnovata posizione monopolistica. Gli sceicchi non son apparsi tuttavia propensi ad assecondare una crescita significativa dell'offerta, per via della progressione dei negoziati nucleari ONU-Iran che riporterebbero oltre 1 milione di b/g sul mercato ed il disinteresse strategico USA al conflitto saudita in Yemen.
Il surplus di capacità produttiva è più basso di quanto sembra
L'Agenzia Internazionale per l'Energia (International Energy Agency, IEA) prevede di conseguenza una stabilizzazione del surplus di capacità produttiva dell'OPEC (cioè il massimo incremento di produzione teoricamente ottenibile da riserve note o facilmente raggiungibili, vedi Figura 2) intorno ai 2,7 milioni di barili al giorno, anche se è utile notare come questo valore sia stato rivisto costantemente al ribasso negli ultimi mesi per oltre 2 milioni di b/g.
Non si tratta solo delle pressioni politiche saudite: gran parte dei Paesi OPEC negli anni ultimi 2 anni non ha raggiunto la quota massima ammissibile e mostra difficoltà di ordine tecnologico e distributivo nell'aumentare la produzione. Nigeria, Angola e Kazakhstan sono i grandi produttori che non sono riusciti ad adeguare la produzione all'aumentata domanda. Al di fuori dell'OPEC e dello shale oil USA non esiste da anni capacità produttiva aggiuntiva. De facto la produzione mondiale sta oscillando da 2-3 anni intorno a quello che potrebbe essere il paventato “picco” globale.
In questa prospettiva va interpretata l'iniziativa da parte del presidente Biden di accrescere temporaneamente l'offerta petrolifera tramite il rilascio di quasi il 20% delle riserve strategiche USA.
Il calo costante degli stock ed il ruolo delle riserve strategiche Usa
La riserva strategica USA (Strategic Petroleum Reserve, SPR) è uno stock di emergenza di petrolio costituito dopo la crisi petrolifera del 1973 che affianca le riserve commerciali standard delle compagnie petrolifere. A fine 2009 ha raggiunto un picco di 727 milioni di barili, sufficienti a coprire circa 6 mesi di consumi USA in caso di embargo petrolifero totale. Nel tempo le sue dimensioni sono cresciute in dipendenza da cicli ripetuti di tiraggio/riempimento, spesso associati a momenti di eccezionale emergenza (guerre, disastri naturali, vedi barre blu in Figura 3). Allo stato attuale, il livello della SPR è appena sotto i 450 milioni di barili, in calo del 17% da maggio 2022.
Dall'analisi dei dati, si possono apprezzare i movimenti delle riserve strategiche/commerciali lungo un periodo di circa 30 anni. L'attuale ciclo di riduzione della SPR si dimostra il più ampio in assoluto nonché il più prolungato ed è caratterizzato dalla riduzione accelerata delle scorte di petrolio light sweet, cioè quello di alta qualità, leggero e poco costoso da raffinare. Al momento, è previsto che il rilascio di riserve strategiche si concluda a fine ottobre 2022 (in corrispondenza con le elezioni mid-term USA) ed è ragionevole supporre che non verrà prolungato per ragioni di sicurezza nazionale ed opportunità politica. In sostanza, questo corrisponderà ad uno shock lato offerta di circa 1 milione di b/g che non potrà non avere ripercussioni significative sul prezzo del greggio.
Il calo degli stock commerciali di prodotti petroliferi è un fenomeno osservabile anche oltreoceano. Per quanto riguarda l'Unione Europea (UE), è possibile decomporre analiticamente il calo degli stock per categorie al fine di capire quale prodotto abbia inciso maggiormente. Si può agevolmente notare (vedi Figura 4), il trend discendente degli stock a partire da inizio 2021 che sembra riguardare non solo il petrolio grezzo ma anche le riserve di prodotti raffinati. A febbraio 2022 il calo annuale è stato tra i più forti mai registrati, particolarmente marcato per diesel e GPL (-54 milioni di barili), kerosene per aviazione (-15 milioni) e greggio (-35 milioni). Negli ultimi mesi lo shock sul prezzo causato dalla guerra in Ucraina ha incentivato, in coerenza con quanto osservato negli USA, la lenta ricostituzione delle scorte, che comunque rimangono molto al di sotto dei valori registrati un anno fa.
Lo shock dell'embargo Ue al petrolio russo: chi rischia di più
Un altro shock all'offerta globale di petrolio è già programmato nei prossimi mesi. Dal 5 dicembre 2022 diventerà parzialmente operativo il ban dell'UE alle importazioni di prodotti petroliferi dalla Russia. Secondo le stime dell’IEA, l’embargo si applicherà alle importazioni di greggio marittimo e alla maggior parte delle forniture conduttive e rimuoverà circa 1,3 milioni di b/g dal mercato europeo entro fine 2022. Dal 5 febbraio 2023 il divieto diventerà totale, cosa che probabilmente ridurrà i volumi importati di un ulteriore milione di b/g.Nella prima parte di quest'anno molti acquirenti tradizionali hanno già interrotto le forniture dalla Russia, spingendo Mosca a dirottare la produzione verso l'Asia, spesso con uno sconto sostanziale. La Russia ha aumentato i suoi flussi di greggio marittimo nella regione di quasi 800.000 b/g, ma lo spazio per un ulteriore assorbimento nel breve termine da parte dei Paesi asiatici sembra esaurito.
In Figura 5 è possibile visualizzare lo sforzo da parte dei Paesi europei OCSE di “sganciamento” anticipato dal petrolio russo. In media, tra febbraio e maggio 2022 l'incidenza del greggio di Mosca sulle importazioni totali si è ridotta di circa 9 punti percentuali (linea nera), con marcate differenze regionali. I Paesi geograficamente più vicini alla Russia e maggiormente dipendenti dalla sua produzione petrolifera (i Paesi baltici, quelli del centro-est Europa e la Germania) hanno ridotto già sensibilmente le importazioni; la Svezia le ha proprio azzerate.
Il discorso cambia per i Paesi dell'Europa meridionale (Italia, Turchia), in cui il peso dell'import russo tende ad aumentare sensibilmente. I dati preliminari relativi all'estate 2022 che utilizzano come proxy l'intensità del traffico marittimo di petroliere sembrano confermare i trend: Germania e Francia dovrebbero essere riuscite ad azzerare da luglio le importazioni, mentre specularmente i volumi importati da Turchia ed Italia sarebbero cresciuti a livelli record (per l'Italia del 400%, quasi 500.000 b/g, per la Turchia di circa il 300%, 250.000 b/g).
Nel caso italiano, la causa della crescita degli acquisti sarebbe da ricondurre all'attività della raffineria di Priolo Gargallo (Siracusa), la più grande d'Italia e controllata dal gigante russo Lukoil. Le banche infatti hanno interrotto prestiti e garanzie ma il greggio russo è l'unico a fluire senza che ce ne sia necessità. Uno switch-off dei flussi da un giorno all'altro di questa entità (il consumo giornaliero di petrolio in Italia si aggira intorno a 1,15 milioni di b/g) non può che indurre cautela sugli effetti negativi possibili su produzione, occupazione, indotto e richiede soluzioni complesse.
In definitiva, si può sperare ma non si può contare che nella crisi energetica attuale il fronte petrolio rimanga tranquillo ancora per molto. Quello che si può fare è prepararsi a gestire l'impatto.
Marcello Minenna, Direttore Generale dell'Agenzia delle Accise, Dogane e Monopoli
@MarcelloMinenna
Le opinioni espresse sono strettamente personali
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