l’università che cambia

Il Politecnico di Milano riscrive la sua missione. Al servizio dell’impresa

Il Rettore Ferruccio Resta apre con un Forum al Sole 24 Ore la fase di consultazione degli stakeholder, partendo da imprenditori e istituzioni. Al centro del nuovo Piano triennale restano la formazione di capitale umano qualificato, le sinergie sulla ricerca e il potenziamento degli accordi con le università internazionali

di Chiara Bussi e Giovanna Mancini

Il rettore del Politecnico Ferruccio Resta (a sinistra) durante il Fourm al Sole 24 Ore. A sinistra il direttore del giorbale, Fabio Tamburini

6' di lettura

L’obiettivo è chiaro e il rettore del Politecnico di Milano Ferruccio Resta non usa giri di parole: «Riteniamo – dice – di poter essere una European leading University». Un ateneo trainante e attrattivo, per mettere in campo una politica internazionale attraverso grandi alleanze europee e al tempo stesso «cercando anche di avere un impatto sul nostro territorio di riferimento», che chiede capitale umano sempre più competente.

La missione («fare alta formazione per affrontare le sfide di domani») non cambia e neppure l’identità. Ma il Politecnico milanese «vuole essere un’Università moderna attenta anche allo sviluppo umanistico e alla capacità di gestire la tecnologia in modo flessibile»: largo dunque a una maggiore contaminazione dei saperi, come sottolinea Resta durante un Forum al Sole 24 Ore con la partecipazione dei rappresentanti delle imprese e delle istituzioni. Il primo di una serie di incontri di riflessione e confronto con gli stakeholder del Politecnico in vista della preparazione del Piano triennale 2020-2022 che traccerà le nuove rotte da seguire.

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Al giro di boa del suo mandato di sei anni che scade nel 2022 si trova a dover ridisegnare il prossimo piano triennale. Quali saranno i capisaldi?

Il piano è un passaggio formale che va al ministero e accompagna tutte le fasi successive. È però anche un’occasione di riflessione per trasformare una procedura tecnica in un momento di confronto con i diversi stakeholder per farci aiutare a disegnare il piano e guidare la nostra riflessione. Il Politecnico è nato nel 1863 per dare ascolto alle imprese e non potevamo che cominciare da qui, sentendo quali sono le loro esigenze. Questa settimana abbiamo organizzato un “Pmi day”, per intercettare le necessità di questo segmento così importante per il tessuto produttivo italiano su cui possiamo fare ancora di più. Sullo sfondo sono tre i macrotemi che inevitabilmente condizionano la nostra visione e le nostre azioni. E in primo piano il nostro confronto con le imprese si poggerà su quattro pilastri.

Quali sono dunque i macrotemi che guidano le politiche di sviluppo e quale impatto hanno sul mondo accademico?

In primo luogo la tecnologia che avanza, dominante, pervasiva, a servizio di cittadini e imprese ma con il rischio che l’essere umano possa essere schiacciato. In secondo luogo le grandi sfide di sostenibilità, con la esse maiuscola – sul fronte sociale, economico, tecnologico e aziendale – che travalicano i confini nazionali in un mondo sempre più interconnesso. Infine, la nuova tendenza alla mobilità delle persone innescata dalla globalizzazione. Sono tematiche che si innescano in uno scenario geopolitico con Cina e Usa che dominano la scena, caratterizzati da una forte identità nazionale, mentre l’Europa è il terzo attore in una fase di stallo. La realtà dell’Università rispecchia la situazione geopolitica: Cina e Usa stanno puntando su grandi atenei ben definendo i ruoli. Un sistema universitario diffuso, che serve a formare la classe dirigente delle loro nazioni e a colmare l’esigenza di maggiori competenze tecnologiche. Se il Far East punta sulle Università di Tokyo, Pechino, Singapore e Hong Kong, negli Stati Uniti crescono sempre di più

le grandi università come Stanford, Mit, Berkeley. In Europa il sistema universitario è più avanti di quello politico: gli atenei, uniti dalla condivisione di valori, stanno tentando di legarsi in alleanze strategiche più forti, non solo tecnologiche, ma anche umanistiche e sociali.

Sul palcoscenico del mondo del lavoro le imprese vi chiedono una formazione più innovativa per far fronte alle nuove sfide. Quale sarà la vostra risposta?

C’è un tema evidente di esigenza di capitale umano che l’impresa ci chiede. Non ci sono abbastanza ingegneri, mancano informatici, data scientist, fisici. Per cogliere l’evoluzione del mondo del lavoro il dottorato di ricerca può essere uno strumento per fare innovazione, come dimostra il caso della Germania, dove atenei paragonabili al Politecnico, come Aachen o Monaco di Baviera, hanno un numero di dottorati che è circa sei volte più grande del nostro. Il secondo pilastro sarà quello della ricerca e dell’innovazione. I punti di forza sono life science, economia circolare, smart city integrata con i servizi e la manifattura. Per quanto riguarda i bandi e i finanziamenti, il driver è la continuità nel tempo che permette di creare scuole di competenza importanti in alcuni settori. C’è poi una grande opportunità sul mondo dell’imprenditorialità giovanile. Dobbiamo progettare un sistema nazionale che consenta a docenti e giovani imprenditori di lavorare insieme per raggiungere la massa critica necessaria a creare quel seme che consente di competere a livello nazionale. Infine, il quarto pilastro sarà il proseguimento della politica di internazionalizzazione. Abbiamo aperto una sede a Xi’An, in Cina, e stiamo ragionando su un’operazione in Africa.

IL TREND DEGLI ISCRITTI

Evoluzione negli ultimi 5 anni (Fonte: Politecnico di Milano)

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Come si fa a inserire più umanesimo in un ateneo dal Dna tecnico-scientifico?

I nuovi contenuti di contaminazione del sapere devono essere inizialmente tecnici. Per farlo completiamo la nostra offerta attraverso le alleanze con altri atenei. Così, dato che la medicina oggi ha bisogno di medici-ingegneri, abbiamo cercato una collaborazione con l’Istituto Humanitas creando un corso unico al mondo. E così è stato anche per la cybersecurity con l’Università Bocconi e la genomica computazionale con l’Università di Milano. C’è poi una contaminazione dei saperi umanistici e tecnici. Per fare qualche esempio, abbiamo inserito Etica dei trasporti quando si parla di mobility engineering, perché ci sono temi etici da affrontare. Non rinunciamo però alla scienza e alla tecnica, le nostre fondamenta restano chimica, fisica e analisi matematica. Su questo ci sarà un’evoluzione, ma le fondamenta delle basi scientifiche rimangono queste e ci permettono di distinguerci a livello internazionale.

Queste nuove esigenze presuppongono una riorganizzazione della didattica. Come intendete procedere?

Abbiamo avviato un progetto-pilota che riguarda sei aule. Non c’è la cattedra, i contenuti sono digitali ed è possibile interagire continuamente con gli studenti e verificare la loro preparazione. È una trasformazione a caro prezzo (200mila euro per ciascuna aula), ma necessaria, perché altrimenti andranno a studiare all’estero. Un’altra strada che stiamo percorrendo è il potenziamento delle competizioni studentesche in autogestione per competere con le grandi università internazionali. Abbiamo chi fa gli edifici intelligenti, i razzi, l’auto elettrica, il gaming, la cybersecurity, le soft skills si imparano sul campo.

L’apertura internazionale non rischia di essere un boomerang per il sistema Paese?

La mobilità internazionale ha dei vantaggi, ma anche degli svantaggi, soprattutto perché poi mancano le forze lavoro sul territorio. La mobilità studentesca sarà un altro grande tema per noi: vogliamo che gli studenti abbiamo un’esperienza internazionale già durante i cinque anni di percorso universitario. Questo è fondamentale perché una volta laureati scelgano un lavoro e non un Paese, come invece spesso avviene oggi.

Le imprese chiedono giovani formati, ma anche lavoratori formati non più giovani. All’estero, soprattutto negli Usa, si sta scommettendo molto sui Mooc, i corsi gratuiti universitari online. Può essere questa la leva per formare nuove competenze?

Il Lifelong learning sarà la sfida del futuro. Oggi la nostra vita è divisa in due fasi: quella in cui ci formiamo e quella in cui lavoriamo e recuperiamo l’investimento dei primi anni. Questa situazione è destinata a cambiare in maniera molto più osmotica, con momenti formativi più evidenti durante la fase lavorativa e esperienze lavorative durante la fase di formazione. Questo secondo me è il punto finale. È difficile farlo fisicamente, ma il digitale oggi lo permette. Abbiamo una piattaforma di Mooc che si chiama Pok (Polimi open knowledge, ndr), sulla quale oggi ci sono 50-60 contenuti già pronti e accessibili a tutti. Sicuramente nei prossimi tre anni dovremo avere un piano chiaro sul Lifelong learning, perché il riposizionamento della forza lavoro è importante da affrontare.

I FINANZIAMENTI CON HORIZON 2020

Dati in mln € riferiti al periodo 2014-2018

I FINANZIAMENTI CON HORIZON 2020

In qualità di segretario generale della Conferenza dei rettori delle Università italiane, come commenta la dote di appena 16 milioni prevista nella Manovra 2020 alla voce Università, per finanziare le borse di studio?

In questo momento i fondi di finanziamento ordinario sono sicuramente in difficoltà. Ci sono Università che faranno molta fatica a chiudere i budget triennali 2020-2022. Questo renderà più difficoltosa la trasformazione necessaria per essere attrattive e mantenere il capitale umano sul territorio. Dato che i ragazzi sono molto più mobili rispetto al passato, andare a Milano o a Monaco, per chi abita a Reggio Calabria o Bergamo, oggi è esattamente la stessa cosa. Dobbiamo rendere le Università competitive sul territorio nazionale valorizzando le differenze. La chiave è questa.

Al di là delle risorse che cosa serve in questo momento?

Serve un patto serio tra imprese, istituzioni e università per disegnare politiche universitarie con responsabilità chiare. In questo modo gli atenei saranno più competitivi e le imprese riusciranno ad avere il capitale umano di cui hanno bisogno.

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