Il prezzo del nuovo, antico protezionismo
Sullo sfondo della “guerra dei chip” (Usa-Taiwan-Cina-Europa) i rapidi cambiamenti negli scenari competitivi nel mercato degli autoveicoli elettrici (E) hanno riaperto antiche controversie sui costi-benefici del protezionismo come politica di accompagnamento alla conquista di nuovi vantaggi comparati (dinamici, non più statici), nella competizione internazionale. Una conquista che deve tener in conto la nuova realtà della Cina come gigante economico mondiale.
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Sullo sfondo della “guerra dei chip” (Usa-Taiwan-Cina-Europa) i rapidi cambiamenti negli scenari competitivi nel mercato degli autoveicoli elettrici (E) hanno riaperto antiche controversie sui costi-benefici del protezionismo come politica di accompagnamento alla conquista di nuovi vantaggi comparati (dinamici, non più statici), nella competizione internazionale. Una conquista che deve tener in conto la nuova realtà della Cina come gigante economico mondiale. In vista delle elezioni Usa 2024, si nota che la linea aggressiva contro la Cina inaugurata da Trump nel 2016 (dazi sull’acciaio e altro) non è stata cambiata da Biden.
Biden, infatti, ha aperto una “guerra dei sussidi” rivolta sia alla Cina sia all’Europa sotto il cappello dell’Ira (Inflation Reduction Act) e ha messo sul tavolo circa 400 miliardi di dollari di incentivi per produrre Ev negli Usa, col requisito del “contenuto locale” dei principali componenti intermedi.
In Europa, particolarmente sulla spinta del governo e del Medef (la Confindustria francese) crescono le pressioni sulla Commissione Ue per varare simili provvedimenti di sostegno alla produzione europea di Ev. I costruttori tedeschi della Vda, per i quali il mercato cinese ha un’importanza maggiore rispetto ai costruttori francesi, sono più cauti nell’invocare misure di ritorsione contro i pesanti sussidi che la Cina elargisce ai produttori nazionali (quasi 60 miliardi di dollari tra il 2016 e il 2022).
Anche i produttori britannici si muovono con prudenza per paura di ritorsioni cinesi, mentre tendono a favorire soluzioni cooperative. Accanto a nuovi dazi sulle importazioni di automobili dalla Cina, il governo inglese vede di buon occhio investimenti esteri (es. la tedesca Bmw per produrre la Mini elettrica a Oxford anzi che in Cina, o la giapponese Nissan che punta ad aprire una gigafactory in joint venture con la cinese Aesc nel nord-est dell’Inghilterra, o l’indiana Tata che ha investito 4 miliardi di sterline in un’altra gigafactory britannica.
Il settore automobilistico è il più importante settore manifatturiero in Europa, particolarmente in Germania. Tre dei maggiori concorrenti mondiali nel settore sono basati in Europa (Vw, Stellantis e Mercedes-Benz) ma il vantaggio competitivo dell’Europa sta rapidamente riducendosi nel settore che guarda al futuro dei veicoli elettrici, in cui la Cina sta arrivando a dominare i mercati avvalendosi di posizioni di vantaggio nelle componenti cruciali come le batterie e i minerali legati alle terre rare.
Già oggi circa un quinto dei Ev venduti in Europa sono fabbricati un Cina. Ma si noti che il 90 per cento di questi veicoli provengono da marchi cinesi partecipati o in joint venture con capitali europei, come nel caso della Saic (la britannica Mg), della Polestar (Volvo), della Dacia Spring e altri.
La dinamica tecnologica e il rapido mutare degli scenari geopolitici obbligano dunque a rivedere antiche certezze in tema di politica del commercio estero. Le classiche virtù del libero scambio mondiale dei beni e dei capitali come motore di sviluppo e fondamentale generatore di benessere per le popolazioni non vengono radicalmente negate, ma vanno ridimensionate alla luce del fatto che molti regimi autocratici (i quali possono facilmente elargire “aiuti di Stato” alle proprie imprese più o meno controllate dallo stesso Stato) crescono di peso politico ed economico rispetto alle classiche democrazie: un mondo in cui aumentano le disuguaglianze tra paesi e tra le fasce sociali all’interno dei paesi, con i populismi che si rafforzano elettoralmente anche nei paesi culturalmente avanzati in nome di valori “patriottici.
La politica commerciale è materia complessa, in cui conviene non dimenticare alcune basi teoriche e storico-empiriche, come le seguenti: a) la protezione tramite dazi all’import è preferibile rispetto a quella basata su contingentamenti quantitativi o “restrizioni volontarie all’esportazione” imposte al paese fornitore, perché lascia operare meccanismi di prezzo di mercato anzi che imporre forzature al mercato; b) la rappresaglia altrui contro le nostre misure protezionistiche in un settore (es. acciaio, autoveicoli) colpisce di norma altri settori non correlati per danneggiare le nostre esportazioni (es. moda, alimentari), generando conflitti di interessi tra i nostri produttori nazionali; c) quando un paese concorrente sussidia a carico dello Stato la propria produzione finale in un settore manifatturiero (es. Ev), ne può derivare una accresciuta domanda di beni e servizi intermedi che i nostri produttori più competitivi possono sfruttare.
Hanno infatti ritenuto che la disciplina applicabile alle società quotate italiane sia troppo rigida, perché caratterizzata dal voto di lista obbligatorio e dalla presenza di minoranze, nonché condizionata da regimi di vigilanza e sanzionatori talora inutilmente afflittivi o da rischi espropriativi come quelli previsti dal decreto legislativo 231 in tema di responsabilità penale delle società.
Molto noti sono i casi delle holding di taluni dei gruppi industriali più importanti d'Italia – da Exor a FCA, da Luxottica a Mediaset, da Illy a Campari – che da diversi anni hanno stabilito la propria sede legale in Olanda al fine di beneficiare di una disciplina di diritto societario più flessibile sul piano delle regole di voto, degli assetti di governo societario e nella selezione del management.
Il disegno di legge pendente al Senato in materia di “Interventi a sostegno della competitività dei capitali” costituisce – se sfruttata con coraggio – un'occasione per segnare un'inversione di tendenza ed evitare che il mercato borsistico italiano perda definitivamente qualsiasi spazio nel panorama internazionale. Se ripenso all'introduzione nel 2012 – cui ho personalmente contribuito – del voto plurimo (previsto per le società chiuse e mantenibile in sede di quotazione) e maggiorato (previsto per le società quotate), non posso non ricordare le ingiustificate critiche rivolte a quel provvedimento, le incertezze e i dubbi indotti al decisore politico di allora, mentre con il senno di poi avremmo dovuto essere molto più coraggiosi nell'innovazione.
Infatti, uno dei problemi che chiede con più forza soluzione è quello connesso all'esigenza di differenziare la posizione del socio stabile, interessato alla gestione imprenditoriale e che apporta un valore di lungo periodo, da quanti sono investitori finanziari interessati, del tutto legittimamente, al massimo ritorno dell'investimento nel breve termine.
Proprio nella prospettiva di operare scelte innovative e più audaci, il DdL Capitali dovrebbe darsi l'obiettivo di riportare in Italia le grandi imprese che negli anni scorsi hanno scelto un diverso ordinamento europeo per la quotazione. Tale obiettivo può realizzarsi introducendo una norma che consenta la trasformazione transfrontaliera alle società residenti nell'Unione europea, e le cui azioni sono negoziate in un mercato regolamentato europeo da almeno cinque anni, trasferendo in Italia la propria sede legale e conservando al contempo le regole di governance adottate in via statutaria in conformità al diritto del paese di provenienza.
Avremmo insomma società quotate in borsa in Italia che però mantengono lo statuto di governance attuale, continuando in particolare a trovare applicazione le regole ivi previste sul voto multiplo e sul funzionamento del consiglio di amministrazione.
Questa soluzione è solo apparentemente eccentrica, atteso che non genera alcuna disparità di trattamento con i soggetti quotati in Italia, non pregiudica i soci di minoranza delle società che rientrano nel mercato italiano o trasferiscono la propria sede nel territorio nazionale e offre un'occasione per sperimentare nel nostro ordinamento regole che potrebbero in prospettiva di ulteriore riforma normativa, sulla base della libera scelta statutaria, essere consentite anche per le società nazionali.
A ben pensare, già oggi l'ordinamento europeo, dopo le pronunce Centros, Polbud e Überseerig, ammette la costituzione di società in uno stato membro applicando le regole di un altro stato membro senza alcun collegamento in termini di sede o attività con quest'ultimo.
Infatti, coerentemente con i principi dell'Unione Europea, consentire a una società di trasferire la propria sede e il luogo della quotazione di borsa da uno stato all'altro senza necessarie implicazioni sulle regole di governance attuali appare funzionale a una piena attuazione del diritto euro-unitario del mercato interno nella misura in cui agevola e incentiva la libera circolazione di capitali e degli operatori economici, rimettendo alla volontà della società trasformata (che potrà altrimenti deliberare di modificare le proprie regole statutarie) di scegliere il regime di governance applicabile.
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