Virginia Woolf

Il primo romanzo «modernista»

«La stanza di Jacob», pubblicato cent’anni fa, insiste sul trauma della Prima guerra mondiale che sterminò una generazione di giovani uomini, come il protagonista Flanders

di Nadia Fusini

 La scrittrice inglese (1882-1941) con Pinka, il suo cocker spaniel

4' di lettura

Annus mirabilis della letteratura angloamericana, il 1922 vede uscire La Terra Desolata di T.S.Eliot, l’Ulisse di James Joyce, e La stanza di Jacob di Virginia Woolf. Opere che ognuna a modo suo, in maniera più o meno diretta, più o meno eclatante, testimoniano il trauma della guerra - la prima mondiale - che sterminò una generazione di giovani uomini come Jacob Flanders, il protagonista del romanzo woolfiano, che già nel nome Flanders, ovvero Fiandre, evoca le battaglie tra le più cruente di quella guerra. A proposito della battaglia di Passchendaele si parlò, in effetti, di «carneficina nel fango delle Fiandre». Dal primo agosto al trenta novembre del 1917 le perdite ufficialmente ammesse dai britannici furono 360mila, in quello che verrà definito «il più triste dramma della storia militare inglese». Insomma, la loro Caporetto.

Jacob Flanders

Nel suo primo romanzo “modernista” Virginia Woolf sfiora quel dramma, appunto, nel nome; non mette a tema la guerra, ma conduce la trama a pezzi e bocconi verso l’ultima scena, che ci precipita nella stanza di Jacob - vuota. E un’eco attutita e sorda di dolore si solleva nel romanzo, mentre l’ombra del massacro rimbomba nella domanda finale della madre, che ritrovandosi nella stanza del figlio scomparso, solleva un paio di scarpe, e le mostra a noi lettori, e ci chiede che cosa farne, ora che Jacob non è più? Lo chiede a noi lettori, a cui però non ha ancora detto, e siamo alla fine del romanzo, che Jacob è morto. Ma la stanza è vuota. O meglio, è piena della sua mancanza. Di tutte le magnifiche illusioni e possibilità e progetti del giovane Jacob, della sua irresistibile attrazione verso il futuro, che pagina dopo pagina ci è stata descritta, dei suoi sogni, delle sue aspirazioni, della sua volontà di vita, della sua energia vitale, sono rimaste le scarpe: le scarpe sono la cosa reale, sì, la res concreta che è lì. Sono le spoglie dell’eroe che non c’è più, i resti del disparu, dello scomparso, del fuggitivo.

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L’“immensità” di Virginia Woolf

Se gli scarponi di Van Gogh, come ebbe a dire Picasso, riferendosi al dipinto un paio di scarpe del 1886, dimostrano l’«immensità di Van Gogh» - perché immenso è chi è capace di nobilitare col suo pennello anche un paio di scarpe vecchie; allo stesso modo, le scarpe di Jacob dimostrano l’“immensità” di Virginia Woolf, che con questo romanzo si arrischia alla ricerca di una nuova forma. È la sua personale battaglia nella scrittura, in letteratura, in ordine alla missione a cui s’è vocata, che è quella di far rinascere nella realtà virtuale della lingua la realtà del suo personaggio, Jacob, trovando e inventando la forma che gli dia corpo e sostanza e lo rappresenti, ora che non è più. Perché, Proust insegna, un romanzo può essere questo: una immensa nostalgia del tempo perduto. Della vita perduta. Sì, questo è il romanzo di Jacob. Non un Bildungsroman, ma un racconto che procede per dissolvenze, secondo una tecnica più vicina al cinema, e alla pittura, che al romanzo tradizionale. Una trama di attese e aperture alla vita che non asseconda una costruzione, ma segue sgomenta una sparizione. Jacob non costruisce la sua vita, la perde. La immagina, la spera, utopicamente la disegna nel suo aprirsi al sogno del divenire; ma la realtà, la vita gliela toglie. È questo la guerra, sempre: un carnaio in cui finiscono al massacro le speranze di una generazione.

Per raccontare tale realtà la scrittrice “modernista” Virginia Woolf intuisce la necessità di combattere contro attese tradizionali di trame ben disposte, con unità di tempo e luogo e di azione ben ordinate e coerenti, e personaggi che sviluppano in caratteri a tutto tondo, come nei bei tempi andati. Si dovrà piuttosto elaborare un concetto di forma, che svuota di ogni ideale sublime; una forma né bella, né brutta, il cui valore non consiste affatto nella sua cifra “estetica”, ma piuttosto nel suo essere un medium espressivo, emotivo, emozionale, capace di esprimere la verità dell’anima.

György Lukács

Non a caso nel 1911 il giovane György Lukács titola L’anima e le forme un libro di meditazione, diciamo così, esistenzialista, della letteratura, che sarà capitale per intendere le strutture narrative come modalità privilegiate nel rapporto tra anima umana e assoluto. In quelle forme, insegna Lukács, e dimostra Woolf in questo romanzo, si dovranno piuttosto leggere in trasparenza i rapporti tra “individuo”, “autenticità”, e “morte”. Nella desolata constatazione dell’irrilevanza e inautenticità dell’esistenza mondana, a cui ha condotto la disperazione della guerra.

La forma è bella, perché è buona. E l’arte è un bene di ordine conoscitivo, morale. Il cui scopo è la riaffermazione del valore del cosmo, contro le forze disgregatrici del caos; le quali forze ed energie non vanno però negate, né represse, né vinte, ma per l’appunto patite anche nel loro aspetto disgregante. Più volte nel romanzo Woolf perde la strada della trama, accenna un passo di danza che poi non conclude, altera l’ordine della coniugazione verbale introducendo il lettore in un orizzonte temporale incerto, collocandolo in un’unità di luogo che continuamente cambia. Più volte disorienta il lettore con azzardi descrittivi che tradiscono l’andamento della prosa e trasportano la lingua a virtuosismi lirico-poetici addirittura enfatici. Visioni, più che descrizioni.

Un’altra idea di bellezza

È così che un’altra idea di bellezza si impone. Virginia Woolf l’aveva intuita anni prima a Perugia, di fronte agli affreschi del Perugino. È il settembre 1908, VW non ha ancora trent’anni, non ha ancora pubblicato nessun romanzo, non è ancora, ma presto sarà una scrittrice; e davanti al Perugino riflette: «Com’è silenziosa questa bellezza, com’è muta. È come se salendo dal fondo fosse rimasta bloccata sulla superficie, immota, e ora eccola, è qui, in queste forme invariabili». Così scriveva nel diario. E ora con La stanza di Jacob la bellezza, e la tragedia della vita le incarna in un romanzo di non-formazione, di incredibile forza.

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