serratia marcescens

Il rapporto contrastato tra uomo e microbi

La visione antropocentrica fa perdere di vista l'effettiva natura del rapporto “ecologico” fra il mondo vivente macroscopico e quello microscopico

di Gilberto Corbellini

(Kateryna_Kon - stock.adobe.com)

6' di lettura

Da circa150 anni, cioè da quando abbiamo le prove che i microrganismi possono causare le malattie infettive, siamo soliti descrivere l'evoluzione dei rapporti fra l'uomo e i microbi distinguendo i microrganismi in “amici” e “nemici”. Amici sarebbero quelli che collaborano al nostro funzionamento, decomponendo i materiali organici nei loro elementi costitutivi, o vivendo nel nostro intestino per sintetizzare alcune vitamine indispensabili, che siamo incapaci di fabbricare. Nemici invece quelli responsabili delle malattie infettive.

Questa visione antropocentrica fa perdere di vista l'effettiva natura del rapporto “ecologico” fra il mondo vivente macroscopico e quello microscopico. Rapporto che cambia sotto la pressione della selezione naturale, ovvero che risponde a dinamiche evolutive dalle quali dipende, contestualmente, se fra la specie umana e una particolare specie di microrganismo c'è conflitto o cooperazione. La storia della biomedicina contiene diversi esempi di come queste interazioni biologiche e i cambiamenti intervenuti nelle loro dinamiche hanno influenzato in maniera articolata diversi aspetti dell'evoluzione socio-culturale umana, oltre che attraverso le pestilenze che hanno decimato l'umanità e le infezione oggi emergenti o riemergenti. Come quello che vede protagonista Serratia marcescens.

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La storia ufficiale inizia ai primi di luglio di un'afosa estate del 1819, a Legnaro, un piccolo villaggio nei pressi di Padova, quando comparvero delle “macchie di sangue” sulla polenta, che spaventarono a tal punto gli abitanti del luogo da indurre l'autorità a nominare una commissione d'inchiesta per chiarire la natura del fenomeno. Prima che la commissione formulasse il suo verdetto, un giovane studente in farmacia dell'Università di Padova, Bartolomeo Bizio (1791-1862), realizzò una serie di esperienze intorno al “fenomeno della polenta porporina”, per le quali potrebbe essere considerato il fondatore della batteriologia moderna e della biochimica batterica. Bizio dimostrò attraverso una serie di ricerche riassunte in un articolo del 1823, che “un essere organico era quello” che produceva il fenomeno della “polenta porporina”, “e non altrimenti una materia bruta figlia della fermentazione”. In pratica, comprese l'origine batterica e parassitaria dell'“essere vegetabile”, che chiamò Serratia marcescens, in omaggio al fisico Serafino Serrati, il primo a utilizzare il vapore per la propulsione di battelli. Ma oltre a confermare il concetto del “contagio vivente”, cioè l'esistenza di organismi microscopici responsabili delle manifestazioni epidemiche, Bizio fu il primo a coltivare un batterio su terreno solido, la polenta fresca, e a trasmetterlo da un terreno a un altro, descrivendo la formazione delle colonie. Egli dimostrò la resistenza del batterio all'essicamento, e la sua capacità di vegetare per anni e di riprodursi con lo stesso tipo di colonia non appena si manifestassero le condizioni favorevoli. Inoltre, scoprì che il colore rosso di Serratia era dovuto a un pigmento insolubile in acqua, ma solubile in alcol. Come se non bastasse, osservò anche una reazione antibiotica, descrivendo come certe muffe impedissero la crescita delle colonie.
Per la cronaca, le conclusioni a cui giunse la commissione d'inchiesta confermavano le ricerche del Bizio. Inoltre, l'autorità ecclesiastica aveva inviato a Legnaro Padre Pietro Melo, per accertare se la polenta insanguinata fosse frutto di una “infestazione diabolica”, il quale essendo anche botanico concluse che si trattava di un fenomeno naturale dovuto a fermentazione. Le ricerche di Bizio però, furono a lungo ignorate e, quando nel 1848 il microbiologo tedesco Christian Ehrenberg osservò analoghe “macchie di sangue” su delle patate cotte, battezzò il batterio Monas prodigiosa, tuttora usato come sinonimo di Serratia marcescens. Questo enterobatterio Gram-negativo, cioè un microrganismo presente nell'intestino che non si colora col metodo di Gram, e che si sviluppa come saprofita nei materiali composti di carboidrati vegetali in decomposizione, era stato comunque già protagonista indiretto e non riconosciuto di eventi più o meno drammatici della storia umana. Cioè per la sua capacità di sintetizzare un pigmento di colore rosso chiamato prodigiosina - e ora vedremo perché -, per cui le colonie di Serratia, mentre si sviluppano sembrano macchie di sangue, che rendeva movimentate le sue manifestazioni.

Le prime notizie del nostro batterio ce le forniscono gli storiografi al seguito di Alessandro il Grande. Nel novembre del 333 a.C. Alessandro cinse d'assedio la città fenicia di Tiro, la cui conquista si rivelò più difficile del previsto. La comparsa di “macchie di sangue” sul pane atterrì l'esercito del Macedone, che già pensava di togliere l'assedio. Il sacerdote addetto al culto di Demetra, interpretò però il presagio come infausto per gli assediati, dato che le macchie erano apparse dentro il pane e non sul pane. Così, Alessandro conquistò Tiro in una battaglia che costò la vita a circa 7.000 fenici e 400 soldati macedoni.
A partire dal XII secolo, le cronache registrano la comparsa di Serratia, cioè delle “macchie di sangue” su diversi materiali di natura vegetale, comprese le ostie consacrate per la messa. I fedeli, ignoranti e facilmente manipolabili da predicatori fanatici, all'apparire delle “macchie di sangue” venivano spesso aizzati contro le comunità ebraiche locali: i giudei già assassini di nostro signore venivano incolpati di pugnalare le ostie, che “sanguinavano” a causa delle ferite. Episodi del genere si ripeterono per secoli, talvolta con la variante di torture per estorcere assurde confessioni agli ebrei “deicidi”.
Il nostro microbo fu quasi certamente coinvolto anche in un fatto che ebbe importanti implicazioni per la storia ecclesiastica, e quella dell'arte. Si tratta del famoso miracolo della messa di Bolsena. Nel 1263 un prete boemo che dubitava della transustanziazione, celebrando la messa in una chiesa nei pressi di Bolsena, e pregando per avere una manifestazione divina del fatto che nell'eucarestia il corpo e il sangue di Cristo entrano nell'ostia e nel vino consacrati, vide sgorgare del “sangue” dall'ostia. In seguito al miracolo, il papa Urbano IV istituì la festa del Corpus Domini e fu iniziata la costruzione del duomo di Orvieto, dove l'evento è rappresentato in un affresco di Luca Signorelli nei primissimi anni del Cinquecento. Nel 1512-3 anche Raffaello affrescò, nella splendida Stanza di Eliodoro in Vaticano, il Miracolo della Messa di Bolsena.

Nell'inquietante dipinto di Paolo Uccello tra il 1467 e il 1468, l'Ostia Profanata, la vicenda è narrata attribuendo a un usuraio ebreo il piano di profanare l'ostia sacra, per cui una sua complice cristiana viene impiccata e l'ebreo con la sua famiglia arso vivo.
Anche dopo le esperienze di Bizio e nonostante i microbiologi avessero ormai dimostrato la natura “biologica” dei fenomeni prodotti da Serratia, e utilizzassero questo saprofita per le ricerche di laboratorio, in qualche caso il manifestarsi di “ostie sanguinanti” creò delle agitazioni fra popolazioni facilmente suggestionabili. Fino a tempi anche recenti. Il fenomeno può essereriprodotto in laboratorio e i risultati sono stati qualche anno fa al centro di una serie di interventi sul bollettino dell'American Society of Microbiology. Nel 1994 la microbiologa Johanna Cullen coltivò S. marcescens su polenta e pane, riproducendo tipiche macchie mucillaginose di intenso colore rosso, simili al sangue. L'esperimento, pubblicato appunto su “ASM News”, diede luogo a una serie di controprove, che confermarono il fenomeno con pane azzimo e ostie non consacrate del tipo utilizzato dalle chiese cattolica ed episcopale. In tal senso, è confutato l'argomento del lettore secondo cui i “sapienti” non saprebbero dimostrare il fenomeno su ostie non consacrate.
Va da sé che la questione se Serratia fosse coinvolta o meno, sarebbe facilmente risolvibile analizzando le reliquie, come proposto dal chimico dell'Università di Pavia Luigi Garlaschelli, esperto nello studio sperimentale dei miracoli. Tra l'altro, nel 1978, il vescovo di Orvieto aveva proposto di provare a identificare nelle reliquie rinvenute durante un'ispezione della cattedrale di Orvieto nel 1950 (ostia, corporale e vari frammenti di lino, seta e pergamena) eventuali frammenti del Dna del microbo. Il Capitolo della Cattedrale negò però il permesso.
Mentre le ricerche sul microbo fornivano nel frattempo importanti informazioni microbiologiche, compresa l'identificazione chimica del suo pigmento colorato, che fu chiamato “prodigiosina”, qualcosa di nuovo stava accadendo nel rapporto fra l'uomo e Serratia. All'inizio di questo secolo, si cominciò a constatare la presenza del batterio in alcune infezioni da cocchi, mentre nel 1929 fu segnalato il primo caso di setticemia dovuto al batterio. Negli anni Cinquanta, poi, in seguito all'eccessivo uso di antibiotici ad ampio spettro che selezionavano ceppi resistenti si manifestarono diversi casi di infezione, anche mortale, da Serratia marcescens. Spesso si trattava di autoinfezioni, dovute allo sviluppo delle nuove tecniche di esplorazione del corpo, che favorivano l'inoculazione di enterobatteri formatisi direttamente nell'ambiente ospedaliero. Peraltro, le proprietà di prodigiosina, il pigmento secreto da Serratia, che si sapeva già dotato di azione citostatica, antimicrobica e antimalarica, si è visto che è anche un immunosoppressore. Data la rilevanza terapeutica degli immunosoppressivi nella medicina dei trapianti e per il trattamento delle malattie autoimmuni, potrebbero anche risultare un supporto per la terapia medica.
In qualche modo si tratta di un segnale da decifrare, non fatalisticamente ma razionalmente: è la dimostrazione che la sanità pubblica deve cominciare a ragionare sui rapporti tra uomo e microbi in termini darwiniani, cioè capire che i microrganismi sono specie biologiche che rispondono ai progressi della medicina evolvendo strategie adattative che gli consentono di colonizzare nuovi ambienti e di modificare la loro virulenza e patogenicità. Altrimenti i prezzi in vite umane che ci troveremo a pagare potrebbero tornare alti, anche nei paesi sviluppati dove le malattie infettive non sono più tra le emergenze gravi.

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