Il reset intimista di Balenciaga, le uniformi sovversive di Valentino
Dopo le polemiche degli ultimi mesi, Demna stravolge la sua formula per la maison di Kering. Lanvin in cerca d’autore, il debutto scintillante di Palm Angels
di Angelo Flaccavento
3' di lettura
La deriva della moda verso l'intrattenimento è inarrestabile quanto dannosa, ma la controtendenza avanza già. La guida Demna, con Balenciaga, autorizzato nel movimento inverso dal fatto di aver lui stesso espresso al massimo il potenziale dello show come macchina di coinvolgimento multisensoriale. Il cambiamento di tono era in qualche modo atteso, e a detta della volontà popolare dovuto, dopo il passo falso della campagna pubblicitaria uscita lo scorso novembre, con tutto lo shitstorm social che ne è seguito, la gogna eretta in un secondo, la sete di giustizia sommaria con cancellazione immediata e l'indubbia goffaggine della maison nel gestire la crisi.
«In realtà avevo già iniziato a ripensare il format prima dello scandalo - dice Demna durante una preview -. I fatti sono solo serviti ad accelerare il processo. Ho sentito il bisogno di tornare ad esprimere il mio amore per questo mestiere, che è fare i vestiti». Il focus dunque si sposta dallo storytelling agli oggetti, ed è una esfoliazione efficace. Il set adesso è una scatola bianca rivestita di tela da modello, ospitata negli spazi del Carrousel du Louvre, gli stessi delle sfilate dell'età d'oro del prêt-à-porter. Demna ritorna alle sue ossessioni, messe a nudo dalla mancanza di sovrastrutture: il tailoring in bilico tra costruzione, decostruzione e recupero, sulla vena di Martin Margiela; una certa eleganza da madame, asciugata; il redesign del corpo e la rilettura dell'immaginario urbano da motard.
È uno show concentrato, potente, che traccia una linea netta, vibrante di un indubbio romanticismo: una reiterazione del codice, non una rivoluzione copernicana. I tre movimenti appaiono a momenti disconnessi - un aspetto da sempre presente nel lavoro di Demna, adesso rivelato nuovamente dalla purezza della presentazione - ma si uniscono in un messaggio incontrovertibile, che in un attimo rende il resto un trucchetto per gettar fumo negli occhi. Fare la moda, infatti, è molto più che sfilare a Parigi in un posto simbolico con una mega produzione.
Il debutto in calendario di Palm Angels è energetico e scintillante - qualcosa nella messa in scena lustra e specchiata ricorda il Gucci di Frida Giannini, e così l'estetica della collezione - e si apprezza il desiderio di maturare fuori dalla nicchia dello streetwear verso territori adulti e preziosi, ma l'epifania non si manifesta appieno. Certo, il tailoring affilato e anche gli abitini da belle du jour sono un balzo in avanti, ma bisogna scavare meglio e trovare sostanza perché tutto questo abbia un senso oltre l'indubbio impatto dello spettacolo.
Lo show di Lanvin si svolge nel rigore claustrale di una abbazia cistercense. Gli abiti sono ugualmente privi di orpelli, ma nella semplicità curata mancano di appeal, di identità, personalità. Questa è una maison che ha fatto storia, e che relativamente di recente ha avuto un momento d'oro grazie ad Alber Elbaz, quindi non può ridursi a cotanto anonimato. Atlein è un bel progetto ugualmente bisognoso di una iniezione di vita, e di personalità: c'è la sapienza del drappeggio, una efficace sveltezza, unita ad una nuova ricerca di eleganza, ma la ripetizione, in passerella, indebolisce invece di rafforzare.
Pierpaolo Piccioli, da Valentino, usa la ripetizione per stabilire un tono, modulato in una serie secca, una vera e propria marcia geometrica, di tema e variazione. La metafora marziale è scelta di proposito: l'idea qui è quella di giocare con l'uniforme per sovvertirla. È la cravatta nera e sottile, tra ska e new wave, a ricorrere dall'inizio alla fine, insieme ai Chelsea boot che segnano il passo. Intorno a questi segni turbinano intarsi optical, piume, ricami, tailoring abbondante e non poca pelle scoperta dalle mini o dagli shorts. L’editing è perfetto, ma nella ricerca di una nuova identità, visibilmente più giovane e rock, si avverte lo sforzo di creare, in vitro, una subcultura. L'immagine impatta, ma rimane una impeccabile fantasia di moda.
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