Il ricordo dell’ambasciatore Vento: «L’11 settembre per gli Usa cambiò un paradigma: niente più Foreign Policy ma National Security»
Il racconto del diplomatico che venti anni fa si apprestava ad entrare negli uffici della missione italiana davanti al Millenium Plaza e alla sede delle Nazioni Unite: «Eravamo lì, a due passi. E la storia ci stava passando accanto. Gli Stati Uniti venivano colpiti al cuore, nel massimo simbolo della potenza politica ed economica dell’Occidente. L’America perdeva la sua innocenza. Da lì in poi tutto sarebbe stato diverso, per gli Stati Uniti e per il mondo intero»
di Gerardo Pelosi
3' di lettura
«Eravamo lì, a due passi, E la storia ci stava passando accanto. Gli Stati Uniti venivano colpiti al cuore, nel massimo simbolo della potenza politica ed economica dell’Occidente. L’America perdeva la sua innocenza. Da lì in poi tutto sarebbe stato diverso, per gli Stati Uniti e per il mondo intero». Alle 8 e 45 (le 14 e 45 in Europa) dell’11 settembre di 20 anni fa l’ambasciatore Sergio Vento, classe 1938, una lunga carriera già consolidata alle spalle (ambasciatore a Belgrado e consigliere diplomatico di quattro premier: Amato, Ciampi, Berlusconi e Dini, sherpa dei G7 di Halifax e Lione) rappresentante permanente dell’Italia presso le Nazioni Unite. Si apprestava ad entrare negli uffici della missione italiana davanti al Millenium Plaza e alla sede delle Nazioni Unite.
Ambasciatore dove si trovava quell'11 settembre di venti anni fa?
Stavo parlando con il collega egiziano prima di salire in ufficio – ricorda oggi Sergio Vento – qualcuno ci passò accanto trafelato e parlò di incidente aereo a una delle due Torri; fino a quel punto sembrava solo una sciagura aerea, drammatica quanto si vuole ma un incidente. Solo più tardi con il secondo aereo si cominciò a parlare di terrorismo. Vennero rispolverati anche vecchi ricordi, Nel ’93, otto anni prima. c’era stato un attentato nei sotterranei delle Torri rivendicato da Al Qaeda. E l’organizzazione di Bin Laden nel ‘98 aveva già messo a segno attacchi alle ambasciate americane di Nairobi e Dar es Salam e l'esplosione contro la Uss Cole ad Aden.
Si comprese subito la natura degli attacchi e da dove provenissero?
Si fece strada subito la posta del terrorismo islamico. Quello che impressionava era soprattutto la grande capacità tecnica di cui stavano dando prova i terroristi. Gli aerei dirottati non erano i piccoli velivoli sui quali molti di loro avevano acquisito mesi prima i brevetti ma dei bisonti del cielo ultratecnologici. Certo ci furono ritardi anche nell'attivazione della difesa aerea soprattutto dopo l'attacco al Pentagono e balenò subito il rischio che un aereo, quello dirottato in Pennsylvania, fosse diretto proprio a Washington per colpire la Casa Bianca. Tutto questo mentre Bush si trovava in volo sull'Air Force One.
E poi le immagini delle persone che si lanciano nel vuoto e il crollo delle Torri...
Immagini che restano fissate per sempre nella nostra memoria. Sul crollo forse neppure i terroristi avevano messo nel conto un epilogo così drammatico e spettacolare anche se la società che aveva costruito le torri sostenne dopo che i pilastri di acciaio che reggevano la struttura erano progettati per resistere anche ad altissime temperature e non avrebbero dovuto fondere.
Prima vostra preoccupazione sapere se c'erano e quanti erano gli italiani presenti in quel momento nelle Torri...
Esatto. Cercai di informarmi subito dalle autorità di New York anche se la competenza istituzionale a seguire la sorte degli italiani era del console generale Radicati e soprattutto del nostro ambasciatore a Washington Salleo. Alla fine si scoprì che i cittadini con passaporto italiano non erano molti ma quelli originari dell'Italia molti di più.
E poi sulle rovine fumanti Bush in piedi insieme al capo dei pompieri di Mahattan che incoraggia la città e tutto il Paese a reagire...
Sì. Anche quella un'immagine forte di venti anni fa. Il segnale che tutti si attendevano per reagire. Lì George W. Bush assume il vero ruolo di Chief and Commander e chiama a raccolta la nazione. Ma c’è di più. Cambia in quel momento anche il paradigma sul quale fino ad allora si reggeva la proiezione internazionale degli Stati Uniti. Da allora non si parlò più di Foreign Policy ma di national Security.
Poi dopo due settimane l’Assemblea generale delle Nazioni Unite si trasforma nel primo vero atto politico internazionale contro il terrorismo con la condanna dell’azione e il richiamo al Titolo 7 della carta Onu per dare la caccia ai santuari di Al Qaeda in Afghanistan...
La risoluzione 1373 del 28 settembre 2001 fu approvata all'unanimità non solo dal Consiglio di sicurezza dell'Onu ma da tutta l'assemblea, cosa mai accaduta prima. Non c'erano solo le esortazioni a ridurre la minaccia terroristica e il giro di vite al finanziamento del terrorismo ma si prevedeva l'uso legittimo della forza in base al Titolo 7. Veniva anche creato il Security Council Counter Terrorism Committee Executive Directorate (CTED), un gruppo composto di una cinquantina di esperti con il compito di stilare rapporti per l’ONU e controllare l’implementazione delle misure di lotta al terrorismo.Ma più o meno in contemporanea anche la Nato faceva scattare l'articolo 5 sulla mutua difesa…In realtà gli Stati Uniti avevano messo in chiaro subito che non volevano mettere i loro militari sotto il controllo né dell'Onu e tantomeno della Nato. Volevano fare da soli con gli alleati che si fossero resi disponibili. Così partì Enduring Freedom. Poi nel 2003 il coordinamento tedesco delle operazioni in Afghanistan convinse anche gli Usa ad accettare un passaggio al coordinamento Nato con Isaf.
E siamo all'oggi. Venti anni dopo la precipitosa fuga delle forze occidentali da Kabul...
Dobbiamo riconoscerlo. Ci siamo trovati a fare i conti con un vero fallimento dell'intelligence politica e militare in Afghanistan. È mancata una vera Mission politica perché l'azione poggiava su ambienti politici locali poco rappresentativi e corrotti. Non è stata poi considerata l'importanza di una Exit strategy. Gli accordi di Doha del 2020 hanno di fatto legittimato i talebani come interlocutori politici anche se non formalmente riconosciuti. Insomma, ora non ci resta che ridurre i danni e gestire con gli strumenti della comunità internazionale una crisi umanitaria di vastissime proporzioni che è sotto gli occhi di tutti.
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