Il rientro delle società andate in Olanda
Dal 2002 al 2023 sono oltre 360 le società uscite dal mercato borsistico italiano, con una perdita di capitalizzazione per Piazza Affari superiore, negli ultimi cinque anni, a 55 miliardi di euro
di Andrea Zoppini
3' di lettura
Dal 2002 al 2023 sono oltre 360 le società uscite dal mercato borsistico italiano, con una perdita di capitalizzazione per Piazza Affari superiore, negli ultimi cinque anni, a 55 miliardi di euro. A tale fenomeno si aggiunge la scelta di quegli imprenditori italiani che ai fini della quotazione hanno trasferito la propria sede all'estero, in particolare in quei paesi dotati di sistemi giuridici che offrono, tra l'altro, meccanismi di governance ritenuti più idonei a valorizzare la posizione del socio stabile. Queste società, infatti, non hanno inteso sottrarsi al regime impositivo fiscale italiano, né delocalizzare i propri siti produttivi.
Hanno infatti ritenuto che la disciplina applicabile alle società quotate italiane sia troppo rigida, perché caratterizzata dal voto di lista obbligatorio e dalla presenza di minoranze, nonché condizionata da regimi di vigilanza e sanzionatori talora inutilmente afflittivi o da rischi espropriativi come quelli previsti dal decreto legislativo 231 in tema di responsabilità penale delle società.
Molto noti sono i casi delle holding di taluni dei gruppi industriali più importanti d'Italia – da Exor a FCA, da Luxottica a Mediaset, da Illy a Campari – che da diversi anni hanno stabilito la propria sede legale in Olanda al fine di beneficiare di una disciplina di diritto societario più flessibile sul piano delle regole di voto, degli assetti di governo societario e nella selezione del management.
Il disegno di legge pendente al Senato in materia di “Interventi a sostegno della competitività dei capitali” costituisce – se sfruttata con coraggio – un'occasione per segnare un'inversione di tendenza ed evitare che il mercato borsistico italiano perda definitivamente qualsiasi spazio nel panorama internazionale. Se ripenso all'introduzione nel 2012 – cui ho personalmente contribuito – del voto plurimo (previsto per le società chiuse e mantenibile in sede di quotazione) e maggiorato (previsto per le società quotate), non posso non ricordare le ingiustificate critiche rivolte a quel provvedimento, le incertezze e i dubbi indotti al decisore politico di allora, mentre con il senno di poi avremmo dovuto essere molto più coraggiosi nell'innovazione.
Infatti, uno dei problemi che chiede con più forza soluzione è quello connesso all'esigenza di differenziare la posizione del socio stabile, interessato alla gestione imprenditoriale e che apporta un valore di lungo periodo, da quanti sono investitori finanziari interessati, del tutto legittimamente, al massimo ritorno dell'investimento nel breve termine.
Proprio nella prospettiva di operare scelte innovative e più audaci, il DdL Capitali dovrebbe darsi l'obiettivo di riportare in Italia le grandi imprese che negli anni scorsi hanno scelto un diverso ordinamento europeo per la quotazione. Tale obiettivo può realizzarsi introducendo una norma che consenta la trasformazione transfrontaliera alle società residenti nell'Unione europea, e le cui azioni sono negoziate in un mercato regolamentato europeo da almeno cinque anni, trasferendo in Italia la propria sede legale e conservando al contempo le regole di governance adottate in via statutaria in conformità al diritto del paese di provenienza.
Avremmo insomma società quotate in borsa in Italia che però mantengono lo statuto di governance attuale, continuando in particolare a trovare applicazione le regole ivi previste sul voto multiplo e sul funzionamento del consiglio di amministrazione.
Questa soluzione è solo apparentemente eccentrica, atteso che non genera alcuna disparità di trattamento con i soggetti quotati in Italia, non pregiudica i soci di minoranza delle società che rientrano nel mercato italiano o trasferiscono la propria sede nel territorio nazionale e offre un'occasione per sperimentare nel nostro ordinamento regole che potrebbero in prospettiva di ulteriore riforma normativa, sulla base della libera scelta statutaria, essere consentite anche per le società nazionali.
A ben pensare, già oggi l'ordinamento europeo, dopo le pronunce Centros, Polbud e Überseerig, ammette la costituzione di società in uno stato membro applicando le regole di un altro stato membro senza alcun collegamento in termini di sede o attività con quest'ultimo.
Infatti, coerentemente con i principi dell'Unione Europea, consentire a una società di trasferire la propria sede e il luogo della quotazione di borsa da uno stato all'altro senza necessarie implicazioni sulle regole di governance attuali appare funzionale a una piena attuazione del diritto euro-unitario del mercato interno nella misura in cui agevola e incentiva la libera circolazione di capitali e degli operatori economici, rimettendo alla volontà della società trasformata (che potrà altrimenti deliberare di modificare le proprie regole statutarie) di scegliere il regime di governance applicabile.
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