Il rifiuto della prosa «antica»
di Gianluigi Simonetti
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Nelle ultime due settimane abbiamo azzardato un’incursione nel terreno dei temi di successo della narrativa degli ultimi vent’anni. Precariato, lotta armata, periferie di vario tipo: alla fine del percorso si rafforza quell’idea che maturava già all’inizio, quando parlavamo di dominanti formali. Non sempre le intenzioni più o meno buone di chi scrive, diciamo pure la sua ideologia, corrisponde pienamente a ciò che l’opera afferma sul piano dello stile. Un libro che senza complessi si dichiara di evasione può svelare (magari involontariamente) qualcosa di reale sulla nostra società; esattamente come un libro che si vuole impegnato e di denuncia può esprimere una voglia latente di evasione - la ricerca di un Altrove travestito da Realtà.
Questa ambivalenza della letteratura, o se si vuole questa sua riluttanza a restar ferma e buona nelle gabbie dove si pretende di recluderla – riflesso ben noto alla teoria novecentesca – dovrà essere tenuta specialmente in conto ora che ci avviamo brevemente a ragionare sul rapporto che la scrittura ultracontemporanea intrattiene con la cultura letteraria del passato. Interpellati sull’argomento, quasi sempre i narratori ci tengono a precisare che il legame con la tradizione per loro è imprescindibile. Per alcuni - quelli sopra i sessanta, i più umanisti, i più insensibili alle mode - il riferimento è di solito a una tradizione nazionale, magari a qualche classico. Per altri - i più informati, i più giovani, a volte i più giovanilisti - a contare specialmente sono gli stranieri, gli statunitensi soprattutto (ma il vento sta cambiando, e torna di moda, dopo il Sudamerica, anche l’Europa orientale). Solo i più provocatori, coraggiosi e iconoclasti ammettono di non avere molti padri letterari, di guardare ad altre arti, e altri linguaggi: fumetti, serie e film. Affermazioni di cui in ogni caso sarà bene non fidarsi più del giusto: la verità di ogni rapporto con una tradizione letteraria passa inevitabilmente dall’uso concreto della lingua; le sole genealogie che veramente contano sono quelle vive sulla pagina. Al di là di ogni dichiarazione di poetica, per cogliere la presenza eventuale del passato nel presente serve verificare i legami reali che sussistono tra le scelte linguistiche più in voga e il repertorio sedimentato nella storia di quella che abbiamo chiamato – nella prima puntata – la «letteratura di una volta».
Se il banco di prova è questo, si direbbe che buona parte della nostra attuale narrativa scelga di mettersi a distanza dal Novecento letterario nazionale. Chi per piacere o dovere legge con continuità romanzi e racconti appena usciti fatica a sottrarsi all’impressione che chi scrive oggi ricorra, almeno una volta su due, a una lingua d’uso comune, e a uno stile anonimo, di comunicazione neutra e imperturbata. Quando va bene, questa scelta di una lingua poco «scritta» può mettersi efficacemente al servizio di un referto psicologico (per esempio in Vitaliano Trevisan), di un immaginario personale (Laura Pugno) o più semplicemente di una storia (Elena Ferrante). Quando invece va male, e spesso va male, il racconto si affloscia, come privo di scheletro: resta un italiano stereotipo e scolastico, solo aggiornato a una cultura globale e interconnessa, che anche per questo non ha più molto a che fare con lo stile medio, semplice e impeccabile, elaborato in pieno Novecento da scrittori attentissimi a farsi capire ma sempre sensibili allo stile come Calvino, o Levi, o Ginzburg. Non pienamente scritto, ma nemmeno veramente orale, generico, fungibile e un po’ anonimo, quest’italiano così buttato via pare il residuo di lavorazione di una manifattura estetica di massa (perdipiù extraletteraria): ad esempio in Paolo Giordano, o in Alessandro D’Avenia. Così si fa strada nella nostra narrativa – sia ai piani bassi del romanzo di consumo, sia a quelli intermedi del nobile intrattenimento – una lingua che somiglia meno al parlato vero e proprio che all’italiano amorfo e conformista dei mass media (o delle traduzioni: da libri stranieri, da film, da serie doppiate, eccetera).
A contatto con questa prosa, e forse per reazione ad essa, l’altra metà dei narratori reagisce muovendosi nella direzione opposta. Allo stile piatto, inconsapevole e vagamente internazionale di tanti loro colleghi contrappongono un pittoresco più o meno artificioso, che fugge la sobrietà e cerca sapori forti e locali. Incoraggiati dai giornali che parlano di «ritorno alla realtà», ultimamente si moltiplicano i partigiani di un italiano a vario titolo speziato, che però non ha molto di realistico: il suo scopo è espressivo, o almeno cromatico. C’è chi pesca nell’italiano regionale o nel vernacolo, tra il serio (ad esempio Giuseppe Montesano) e il faceto (ad esempio Andrea Camilleri); chi nell’aulico, nell’epico e magari nell’antichizzato, con risvolti iperletterari (Erri De Luca) - anche se a volte di una letterarietà poco padroneggiata (Paolo Sortino), o decisamente fuori controllo (Giuseppe Genna). E poi c’è la risorsa del gergo giovanile, da riscattare con qualche preziosismo: ieri Isabella Santacroce, oggi Yasmin Incretolli. Al realismo socievole e ben temperato che di solito accompagna la prima opzione – si pensi, per esempio, a Sandro Veronesi - si affianca così, con la seconda opzione, un realismo per eccesso, sopra le righe, tentato dal bozzetto: come nei romanzi di Margaret Mazzantini.
Medietà conversevole e oltranza pittoresca rappresentano insomma due modi per rispondere all’esperienza centrale della lingua letteraria degli ultimi trent’anni: il tramonto delle «prose di romanzi», delle forme di prestigio, insomma della lingua scolpita e messa in forma della tradizione novecentesca, sentita ormai come superata e specialistica (quando non semplicemente ignorata nei suoi passaggi decisivi). Il distacco è stato lento, dagli anni Sessanta in poi; ma pare oggi irreversibile. L’avversione profonda e volte inconscia per questa tradizione è ciò che oscuramente tiene insieme chi ricorre massicciamente alle parole della televisione e del cinema (o delle canzoni, degli spot e dei fumetti), chi si butta sul dialetto, chi si affida a sprazzi lirici più o meno estemporanei. Né manca un nesso con quanti effettivamente sperimentano una più coraggiosa e organizzata stilizzazione del parlato, conciliando orecchio allenato e buone letture. Area vasta, che conosce esiti anche molto raffinati, per esempio sul versante dello stile dissacrante e antitradizionale, tutto oralità, forgiato da Celati negli anni Settanta. Uno stile ripreso in chiave di gergo giovanile da Tondelli e dai suoi epigoni, in modo più coerente e stralunato da affabulatori come Cavazzoni, Cornia e Nori.
Comune a questi tentativi sia pure diversi di scrivere «come si parla» - e a volte, più estremisticamente, di scrivere «strano» - resta comunque la più o meno velata polemica non solo verso l’italiano letterario, inteso come modello etico ancor prima che stilistico, ma verso ogni forma di scrittura convenzionalmente cólta. Il lupo cattivo, per questo tipo di narratori, era in origine il romanzo cosiddetto «ben fatto», odiato a morte dalle neoavanguardie. Ma quel tipo di diffidenza oggi si è espansa, colpisce ogni forma tradizionale di racconto. La si elude salendo verso l’alto – cioè enfatizzando e sovraccaricando la grammatica del parlato (come in Nori) – oppure precipitando verso il basso – fino alla scrittura substandard, anzi fino alla dislessia (come nei cosiddetti «cannibali»).
In un quadro così ostile agli ultimi palpiti della vecchia letteratura, gli scrittori disposti ad accettare la lingua scritta del passato come base indispensabile e reale della lingua scritta del presente sono rimasti in pochi. Quasi tutti quei pochi – non si può non registrarlo - hanno una certa età. In autori come Cordelli o Del Giudice, o nelle cose migliori di Trevi e Pecoraro, il passato c’è ma non si vede (parte dello sforzo consiste nel nascondere le tracce). Alcuni, con talento da ventriloquo, accettano umilmente di rifarsi, anzi rifare (a volte virtuosisticamente, come Michele Mari) grandi modelli della tradizione. Altri, meno umili, la tradizione vorrebbero «sfondarla» (Antonio Moresco). Pochissimi provano con fatica a reinventarla, la lingua letteraria; mescolando il vecchio e il nuovo, e sprofondando a testa prima nel presente (ma con gli strumenti e le ambizioni «di una volta»): Busi, Siti, Arbasino. Sono i più consapevoli e attrezzati; i più decisi a difendere, attaccando, l’agonia delle forme del passato. Forse stanno anche loro per estinguersi.
Nono di una serie di articoli. I precedenti sono stati pubblicati il 30 luglio, il 6, 13, 20, 27, 27 agosto, il 3, il 10 e il 17 settembre
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