Il rimpianto della fede persa
Osservava i riti e creò uno dei capolavori dell'800, la «Messa da Requiem». Per il suo funerale volle «un prete, un cero, una croce», ma si dichiarava se non ateo, poco credente
di Raffaele Mellace
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Difficilmente stupirà che Verdi non abbia affidato riflessioni di ordine esistenziale a pagine da diario intimo. Chi sia interessato al suo sguardo sulla realtà dovrà leggere tra le righe delle oltre 15mila lettere o affidarsi alla voce di chi gli fu più vicino. A maggior ragione in tema di convinzioni religiose, rispetto alle quali ci soccorrono due testimoni che più di altri ebbero accesso all’intimità del compositore maturo. Innanzitutto la seconda moglie, Giuseppina Strepponi, che nel 1872 così descriveva il compagno di mezzo secolo di esistenza: «È una perla d’onest’uomo, capisce e sente ogni delicato ed elevato sentimento, eppure questo brigante si permette d’essere, non dirò ateo, ma certo poco credente, e ciò con una ostinazione ed una calma da bastonarlo. Io mi smanio a parlargli delle meraviglie del cielo, della terra, del mare, ecc. ecc. Fiato perduto! Mi ride in faccia e mi gela in mezzo ai miei squarci oratorii, al mio entusiasmo tutto divino col dirmi: “Siete matti”, e disgraziatamente lo dice in buona fede».
Arrigo Boito
Si metta a sistema la vivace scenetta ora descritta con i ricordi che Arrigo Boito, l’intellettuale e amico più vicino all’ultimo Verdi, consegnò a Camille Bellaigue nel decennale della scomparsa del maestro: «La Vigilia di Natale gli ricordava le sante magie dell’infanzia, gli incanti della fede, che non è veramente celeste se non quando s’innalza fino alla fede cieca nel prodigio. Questa fede cieca l’aveva ahimè perduta, come tutti noi, ben presto. Ma ne conservò per tutta la vita, forse più di tutti noi, un pungente rimpianto.
Alessandro Manzoni
Ha dato l’esempio della fede cristiana attraverso la commovente bellezza dei suoi lavori sacri, attraverso l’osservanza dei riti (ricorderai della sua bella testa abbassata nella cappella di Sant’Agata), attraverso il suo illustre omaggio a Manzoni, attraverso la prescrizione dei suoi funerali trovata nel suo testamento: “un prete, un cero, una croce”. Sapeva che la Fede è il sostegno dei cuori. Ai lavoratori dei campi, agli infelici, agli afflitti che lo circondavano s’offriva egli stesso come esempio, senza ostentazione, umilmente, severamente, per essere utile alle loro coscienze... In senso ideale, morale, sociale, era un grande cristiano: ma occorre guardarsi dal presentarlo come un cattolico in senso politico e strettamente teologico del termine».
Prospettive diverse ma convergenti nel dipingere una figura di grande spessore, radicata in un humus culturale cristiano e insieme gelosamente appartata su un poggiolo da cui osservare la realtà da una prospettiva personale. All’insegna di quell’autonomia di pensiero che fu la divisa più autentica dell’uomo e dell’artista.
A quest’uomo si devono due dei progetti più significativi in tema di sacro in musica dell’intero Ottocento: la Messa da Requiem e i Quattro pezzi sacri, ultima avventura d’una parabola creativa straordinariamente lunga. Se la produzione chiesastica ordinaria l’aveva impegnato ragazzo a Busseto, è con la maturità più tarda, quando mancheranno solo due titoli al suo catalogo e si sarà quietata la concitata frequentazione delle scene, che il sacro tornerà a sedurre Verdi in termini affatto personali. Meditata sin dalla morte di Rossini, l’idea della Messa da Requiem diventa, alla scomparsa del venerato Manzoni, «bisogno del cuore», come il compositore si espresse offrendo il lavoro al sindaco di Milano. Frutto d’ispirazione intima, insieme tributo a una somma gloria nazionale e sguardo pensoso al destino dell’uomo, messo in scena innumerevoli volte ma contemplato ora, senza il filtro della finzione drammatica, nella sua nudità senza appello. Con un’autenticità immediatamente riconosciutagli nell’esigente Germania: «Giuseppe Verdi è per l’aristocrazia musicale il compositore del Requiem», sentenziò la «Kölnische Zeitung». Rovello esistenziale che si ripropose al limitare della vita creativa nei Quattro pezzi sacri compiuti nel 1897, come la Messa più per la sala d’un teatro che per la chiesa, in cui il lascito della civiltà nazionale (Dante, Palestrina) è ripensato con potente sintesi personale attraverso quattro titoli disparatissimi. Come nel Falstaff di pochi anni prima, l’instancabile indagatore del cuore umano non cessa di sporgersi oltre le convenzioni del tempo anche in quest’ambito, il più consono alla pensosa riflessione del musicista ottuagenario.
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