Il rito della lezione e il sapere irrequieto
Il vecchio insegnante - o dovrebbe dirsi, con impietosa crudezza, l’insegnante ormai vecchio, e quasi perduto negli anni - è tornato nell’Aula I.
di Natalino Irti
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Il vecchio insegnante - o dovrebbe dirsi, con impietosa crudezza, l’insegnante ormai vecchio, e quasi perduto negli anni - è tornato nell’Aula I. Sorride dall’alto il casto cielo di Roma, appena venato da brividi autunnali. Anche la sobria cerimonia sembra smorzarsi nella tenuità delle “elegie romane”. L’Aula, restaurata e tirata a nuovo, si apre in ariosa eleganza; è come in attesa. Sta nella Facoltà giuridica de “La Sapienza”, entro la lucida e classica modernità, che Marcello Piacentini impresse alla Città Universitaria. La grande opera fu compiuta nel giro breve di tre anni; e le cronache del Regime danno notizia di un telegramma, che il Mussolini indirizzò, brusco e rude, al Rettore Alfredo Rocco: «Invece dei duemila operai che mi avevano detto possibile di occupare nei lavori della nuova Università, ieri ne ho fatto contare 190 manovali, dieci muratori, 3 assistenti: totale 203 stop ti prego di far attivare al massimo tali lavori poiché anche a Roma la disoccupazione edile est notevole». Curiosità e aneddoti di tempi lontani, che si addensano nella memoria e colorano di sorriso le malinconie del ritorno. È anche ritorno dello scolaro, dello smarrito adolescente giunto dalla provincia abruzzese, e tutto assorto nell’ascoltare la voce pomeridiana e sussurrante di Arturo Carlo Jemolo, o la ferma e netta di Francesco Calasso. Il suo grande maestro Emilio Betti raccoglieva radi scolari in piccola e ombrosa auletta.
Tornò insegnante in quell’Aula I, e provò la trepida vigilia di ogni lezione, e il leggere nello sguardo dei giovani, affollantisi a centinaia, l’impegno del far capire che era un suo capire più chiaro e profondo. Nulla, o forse soltanto l’antica amicizia e la fresca passione d'amore, reggono il confronto con l’umana esperienza della lezione, se essa ha la pienezza d’un dono e l’umiltà di un irrequieto sapere.
Ed altre aule gli sovvenivano nella vastità della Sapienza. La prima, l’austera Sassari del 1968, dove una lapide statuiva: “Fortitudo mea est oboedientia majorum”: la forza del mio
animo è nell’osservanza della tradizione. Il vincolo al passato mi sorregge e invigorisce. E poi l’Aula dei Filosofi nella dolce e lieve Parma; e, ancora, per il lungo cammino da Università a Università, il luminoso vagare in un’aula torinese, entro il nuovo edificio succeduto al severo Palazzo Campana.
Aule tutte, dove, come in antichi e moderni templi, si celebra - o si celebrava - il rito spirituale della lezione. Ed ogni volta l’insegnante ne usciva orgoglioso e insieme scontento: orgoglioso, di quel leggersi negli occhi, di quell’ostinato far capire con la parola più semplice e rigorosa; e pure insoddisfatto per non aver dato il meglio di sé, il di più che si sente dentro e non riesce a trovare le vie del dialogo. Ardua è la parola, che stringe in unità insegnante e scolari: la parola,
né inelegante né impropria, capace di gettare il ponte e di aiutare l’uno e gli altri.
Le aule sono come consapevoli spettatrici di questo incontrarsi e osservarsi e giudicarsi: sì, anche giudicarsi poiché il giudizio è nelle cose stesse, nel porsi gli uni a parlare, gli altri ad ascoltare. Giudicavano gli scolari di un remoto 1954; e giudicano gli adolescenti e ragazzi di oggi 19 ottobre 2022, in cui l’aula, tra saluti augurali e commosse memorie, li accoglie nella composta serietà della loro giovinezza. E giudicarono e giudicheranno gli insegnanti che non temano l’ufficio del valutare e distinguere, da secoli affidato alla loro probità e responsabilità.
Non aula di crudeli tribunali, ma di un farsi vicini e partecipi gli uni agli altri, e così costituire la fruttuosa unità del rapporto didattico: dove le età quasi
si confondono in un presente degli intelletti, e ciascuno, donando, si allarga e si fa più ricco e sicuro di sé.
L’Aula I è il simbolo di ogni altra; e tutte hanno la stessa dignità, luoghi della parola dialogante, del reciproco intendersi, dell’umano giudicare.
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