Il ritorno dell’antico male eterno
È ambientato a Butera l’ horror metafisico di Orazio Labbate
di Antonio Armano
4' di lettura
“Spesso il male di vivere ho incontrato/ era a Voghera e non l’ho salutato” scriveva il grande Alberto Arbasino. In una spirale di parodie si potrebbe arrivare da Voghera a Butera dove è ambientato Spirdu, horror metafisico di Orazio Labbate e ultimo episodio di una trilogia del gotico siciliano dopo Lo scuru e Suttaterra.
Al male di vivere spuntano le corna e gli zoccoli; e l’esorcista Jedediah Faluci cerca di “spossessare” in una ex carnizzeria cioè macelleria gli indemoniati. L’accidioso e inquietante tedium vitae montaliano si trasforma in più grandioso e spettacolare Male assoluto, tra le ombre spesse proiettate dal sole siciliano.
Butera è un comune collinare della piana di Gela, la cui rocca arabo-normanna domina il territorio degradante verso il mare. Qui si trova la carnizzeria dove, attraversando l’Oceano come una tubatura sottomarina, un tentacolo mostruoso o un oscuro cordone ombelicale paterno, converge il filo più nero dell’altra matassa della storia.
Kathrine Pancamo, detective in West Virginia, cresciuta in un brefotrofio, dà la caccia a un serial killer che scuoia la vittime e si è guadagnato il soprannome di “nipper” (pinza/tronchesino), in assonanza con “ripper” (squartatore), ma secondo modalità più chirurgiche e meno invasive e in ambientazioni religiose.
Carnizzeria
Dalla chiesa americana si finisce dritti alla carnizzeria.In copertina del romanzo ci sono le “betende Hände”, le mani in preghiera disegnate dal Dürer. Sono mani sottili e curate di studioso che conosce la liturgia nelle lingue morte e sfoglia manuali De “Possessionibus”, ma anche mani forti e muscolose come si conviene a chi tratta con indemoniati e ne subisce le reazioni.
L’edizione Italo Svevo è molto bella, un oggetto prezioso da bibliofili, con le pagine intonse che danno l’impressione di trovarsi davanti a un volume di Poe o Lovecraft, fatto con cura artigianale e trovato nell’antro di un libraio dove il telefonino non prende. Le pagine sono “intonse” e vanno qui tagliate procedendo nella lettura. E’ quasi un peccato pugnalare la carta e si consiglia l’uso di un tagliacarte.
Per restare nell’attualità tra i punti di riferimento del romanzo di Labbate c’è Liberami, il docufilm di Federica Di Giacomo, premiato a Venezia, sulla figura di Padre Cataldo Migliazzo, esorcista francescano a Palermo, che combatte nonostante gli anni l’onda dei nuovi posseduti. Un fenomeno in crescita, analizzato ad ampio raggio – partendo dalla notte dei tempi – da Francis Young, in uno studio intitolato Possessione (Carocci), dove Cipriano di Cartagine (210-128) e Gabriele Amorth (1925-2016) si ritrovano agli estremi della stessa storia.
Padre Cataldo
Padre Cataldo riceve, ascolta e seleziona la massa di persone che si rivolgono a lui, discernendo chi ha un disagio psichiatrico da chi è veramente posseduto, secondo l’autorità conferitagli dall’arcivescovo di Palermo e primate di Sicilia. Nonostante siano persone circondate e protette dalla famiglia, i posseduti sembrano maledettamente soli di fronte al Male. Come profondamente soli sono l’esorcista e la detective del romanzo di Labbate.
Se l’approccio di Liberami è nel segno del cinema della realtà, scabro e discreto mentre si avventura nelle distrette del male, Spirdu cresce e si sviluppa da un impasto linguistico gaddiano dove termini dialettali e neologismi del “gotico siciliano” fanno lievitare la base di un italiano ricco e classico. Il gotico si fa così nello stile barocco, ma è il barocco dei trionfi della morte, dei lampadari fatti con le ossa umane nelle cripte dei Cappuccini.
Il Male è ovunque nella piana di Gela, lo avvolge come una nebbia devastante e non risparmia neanche un filo d’erba. Lo sforzo stilistico è indubbiamente notevole e trascina il lettore nei territori di uno sperimentalismo dove la Sicilia nera del Consolo di Nottetempo si fonde con il sud di Santuario di Faulkner. A partire dal nome dell’esorcista, che sembra preso dall’organigramma di una setta americana, tra il biblico di Jedediah e quel Faluci che evoca implicitamente l’impossibilità di riportare nel mondo il chiarore aurorale e puro della Genesi.
L’ormai ambigua luce del Mezzogiorno si tira dietro ombre spesse e lascia il posto a notti di buio pesto: “Dall’orrore del cielo non venivano fuori le stelle” (è incipit di questa Genesi al contrario dove il Dio padre si capovolge nel Demonio padre).Non c’è scampo nella piana di Gela, e chi resta in questa “pianura buia, felice del proprio laceramento”, è dannato. La luce del mattino è “sciatta”. I pesci sott’acqua emettono “grandissime grida” che giungono in superficie. Mentre una vecchia ha occhi “di burro fritto e chiaro” e le mura sono “sporche di pisciati”. Dai burroni ai margini delle strade arrivano “scoppi di silenzio”. Così come a Milton (West Virginia) si respira un’aria di noccioline stantie (ognuno va in malora a modo suo) e il brefotrofio dove Kathrine è stata abbandonata dai genitori, è un “torsolo di mattoni bruciati”.
Piazza Dante, per tornare nelle distrette originarie del male, “indegna di un cristiano qualsiasi, vuota e deturpata da putride panchine scarugnàtu e infettive”. La patria, la terra del padre, del Dio padre e del padre indemoniato, è solo un anfratto anticristico: “Malidìtta Butera e gli dei vutrìsi [buteresi]. Maliditta tristezza”. Se in Sud e magia De Martino vedeva marxianamente nei rituali di possessione lo sbocco fisiologico di un popolo agìto e sottomesso, nel labbatiano baronato satanico di Butera torna in scena l’antico Male eterno che il battesimo non basta a scacciare.
Orazio Labbate, Spirdu, Italo Svevo, pagg. 171, 16 euro
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