Il ruolo della Cdp e la mediazione dagli interessi
di Antonella Olivieri
4' di lettura
Adesso i ruoli si ribaltano. Il fondo attivista americano Elliott conquista la maggioranza del consiglio Tim e depone le armi, Vincent Bolloré a capo della filiera Vivendi finisce in minoranza e promette battaglia. «Se perdiamo faremo noi gli attivisti», commentava un portavoce di Vivendi alla vigilia del ribaltone e «nessuno di sensato vorrebbe avere contro Bolloré nei panni dell’attivista».
Bollorè che la Francia in casa mette sulla graticola - con i magistrati anticorruzione di Nanterre che lo indagano per i suoi affari in Africa - mentre all’estero lo appoggia - con la Cdp transalpina che vota a favore dello status quo in Telecom. Bolloré che non ha nove vite come un gatto, ma forse persino undici. Che non si è arreso fino all’ultimo, chiamando a raccolta i suoi azionisti perchè lo sostenessero nella sfida assembleare, e lunedì sembrava ce l’avesse persino fatta a restare in sella.
Ma l’impresa si è rivelata impossibile anche per l’audace e tenace bretone. Vivendi ha inanellato un’incredibile sfilza di errori nella sua rovinosa campagna d’Italia, non solo nel braccio di ferro ingaggiato con Mediaset, finito con la sterilizzazione dei due terzi della quota rastrellata. Lì, perlomeno, c’era un azionista che si è difeso con grinta, la Fininvest della famiglia Berlusconi. Ma in Telecom il gruppo transalpino non aveva rivali, unico singolo azionista con quasi un quarto del capitale in mezzo a una platea di investitori di mercato, per definizione frazionati. Il biglietto da visita col quale Vivendi si è presentata per il primo ingresso nel board Telecom - il sabotaggio della conversione delle azioni di risparmio da vent’anni attesa dal mercato -, la pretesa di governare da Parigi con metodi spicci su 11 miliardi di acquisti della compagnia telefonica - tra le rimostranze dei fornitori italiani che sono arrivate anche nelle sedi istituzionali -, le forzature di governance - che hanno sollevato le contestazioni degli amministratori di Assogestioni (che per ricompensa hanno perso il posto) e dei sindaci, e provocato l’intervento delle Autorità -, sono tutti passi falsi dei quali i francesi non possono che rimproverare se stessi. Inutile reclamare di avere contro l’arbitro, perchè l’arbitro nella sconfitta di ieri è stato
il mercato.
Qui siamo e qui restiamo, dicono ora i francesi, che possono consolarsi con l’insperato aiuto che l’intervento degli americani darà a sbrogliare tutti i pasticci rimasti in eredità da un anno di mosse scomposte: dallo smantellamento dei vincoli del golden power, al rischio di consolidamento dell’ingente debito Telecom derivante dall’assunto del controllo di fatto, all’obbligo preso con Bruxelles di far cedere Persidera con il veto dell’azionista di minoranza Gedi. Ma è chiaro che una via d’uscita - o per lo meno un compromesso - prima o poi andrà trovato. “Veniamo in pace”, avevano provato a sventolare il ramoscello d’ulivo gli attivisti Usa, cercando di mettersi in contatto con la controparte per evitare lo scontro in assemblea. Per tre volte Elliott ha messo in agenda un incontro col ceo di Vivendi Arnaud de Puyfontaine, e per tre volte l’appuntamento è stato disdettato. Allora Elliott ha bussato alla porta di Bolloré che nemmeno ha risposto.
Col suo 24%, Vivendi è in grado di essere “minoranza di blocco”, in grado di fermare la conversione delle risparmio - come già si è dimostrato - ma anche operazioni straordinarie non gradite. Di fatto il condizionamento su Telecom non è finito il 4 maggio. Dalla battaglia per la conquista di Ubisoft, alla fine Bolloré è uscito alla grande, imbastendo un’operazione finanziaria - con l’accordo della famiglia proprietaria che si era proposto di scalzare -che gli ha permesso di realizzare l’investimento a un prezzo quasi triplo rispetto ai valori di carico. Ma Ubisoft è un’altra storia, ha commentato un alto dirigente di Vivendi che ha confessato che il gruppo giocava per vincere, non per consolarsi con gli effetti collaterali: “Ubisoft si può sostituire, l’Italia no”. Anche perchè il prezzo delle azioni Telecom - 0,86 euro ieri - è ancora ben distante dal prezzo al quale Vivendi le ha in carico - 1,07 euro - pur senza aver pagato un premio di maggioranza per mettere assieme la quota. Illusorio pensare che la Cdp possa ottenerne solo una parte senza pagare dazio.
E tuttavia per Telecom - ammesso che il suo destino non le riservi altri tormenti - il meglio sarebbe trovare una stabilità nell’azionariato che possa rappresentare e conciliare tutti gli interessi, privati e pubblici. Non è un’eresia se gli interessi sono convergenti e Cdp, che si è esposta su Telecom più di quanto lo sia sul concorrente OpenFiber, dovrebbe essere il perno di quella stabilità che si propone di favorire. Intanto va dato atto alla Cassa - coi vertici in scadenza - e al suo azionista maggioritario - lo Stato con un Governo altrettanto in scadenza - di essersi presi la responsabilità di una decisione, rivelatasi determinante nella contesa assembleare, che, piaccia o no, merita rispetto.
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