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Il ruolo delle democrazie nel disordine mondiale

Invadendo ingiustificatamente l'Ucraina, Vladimir Putin ha messo in discussione l'equilibrio che si era formato con la fine della Guerra Fredda

di Sergio Fabbrini

(AdobeStock)

4' di lettura

Invadendo ingiustificatamente l'Ucraina, Vladimir Putin ha messo in discussione l'equilibrio che si era formato con la fine della Guerra Fredda. Il mondo precedente il 24 febbraio dell'anno scorso non c'è più, anche se non sappiamo quale mondo potrà sostituirlo. Per Henry Kissinger siamo entrati in una contrastata transizione, con forze che spingono in direzioni opposte. Vale la pena di capirne le caratteristiche, sia sul piano internazionale che europeo.

Cominciamo dalle relazioni internazionali. La guerra russa sta spingendo le democrazie a ridurre la loro dipendenza dalle autocrazie per le risorse necessarie al loro sviluppo. L'economia internazionale continua a “fratturarsi”, ha argomentato con preoccupazione Rahuram G. Rajan su «Foreign Affairs». L'investimento straniero diretto rappresentava l'1,3% del Pil mondiale nel 2020, mentre era il 5,3% nel 2007 (dati della Banca Mondiale).

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La globalizzazione aveva consentito alla Cina di liberare milioni di cittadini dalla povertà, ma ciò era avvenuto contravvenendo le regole del commercio mondiale (Wto) sugli aiuti statali. Per rispondere alle conseguenze negative della globalizzazione al proprio interno, ora è l'America a non rispettare più quelle regole. Su proposta del presidente Joe Biden, ad esempio, il Congresso ha approvato nel luglio scorso il Chips Act, legge che fornisce 52 miliardi di dollari di aiuti ed introduce uno sconto fiscale del 25% a favore delle imprese americane che producono semiconduttori. Oppure, ha approvato nell'agosto successivo l'Inflation Reduction Act, legge che fornisce 369 miliardi di dollari a sostegno della riconversione tecnologica delle imprese che operano sul territorio americano. Stephen Walt ha scritto su «Foreign Policy» che il confronto tra America e Cina costituisce la nuova linea divisoria del sistema internazionale, in quanto obbliga gli altri Paesi a collocarsi da una parte o dall'altra. Anche se la Cina agisce come una grande potenza, è però lungi dall'esserlo (ancora oggi è priva di un efficace vaccino anti-Covid). È evidente che l'economia dovrà prendere in considerazione la sicurezza, ma è bene essere consapevoli delle conseguenze. Un mondo “fratturato”, o de-globalizzato, renderà difficile la soluzione di cruciali problemi collettivi (come il contrasto ai cambiamenti climatici) oppure accrescerà i costi di beni e servizi nei mercati occidentali, per via dell'accorciamento delle catene di valore. A sua volta anche l'America, che è una grande potenza, sta vivendo una profonda crisi costituzionale a causa dell'estremismo del Partito repubblicano (che ha faticato persino ad eleggere il proprio Speaker alla Camera dei rappresentanti). Ecco perché, ha scritto John Ikenberry su «Foreign Affairs», occorre riformare l'ordine liberale multilaterale, non già dare per scontato la sua involuzione. Il ritorno alla logica delle grandi potenze non conviene a nessuno.

Vediamo ora l'Europa. Anche qui, la guerra russa ha mostrato i limiti della visione mercantilistica di politica estera dell'Unione europea (Ue). La quale è costretta dai fatti a dotarsi di una capacità decisionale per affrontare le sfide esistenziali che la minacciano. Sul piano politico, le ambizioni imperiali della Russia putiniana richiedono, per essere contrastate, che l'Ue disponga di una capacità difensiva sovranazionale, indipendente dai suoi Stati membri, utilizzabile da un'autorità politica democraticamente eletta. Eppure, le predisposizioni nazionaliste sono dure a morire. Di fronte all'aggressione di Putin, il cancelliere tedesco Olaf Scholz riconosce, su «Foreign Affairs», che «il mondo è di fronte ad un Zeitenwende, ad uno spostamento tettonico epocale», ma poi parla del riarmo del proprio Paese sovrapponendolo concettualmente a quello europeo. Il presidente francese Emmanuel Macron riconosce che l'Ue debba avere una propria autonomia strategica, ma poi non compie l'unica scelta che potrebbe avviarla, la trasformazione del seggio francese al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite in seggio dell'Ue. Ma anche sul piano economico, le trasformazioni del commercio mondiale, oltre che le scelte americane, richiedono, per essere gestite, una capacità fiscale centrale per sostenere un'autonoma politica industriale. L'Ue si è dotata di un programma (Important Projects of Common European Interest o Ipcei) per favorire la produzione europea di batterie per veicoli elettrici oppure di semiconduttori per l'elettronica, ma poi non dispone dell'autorità politica e delle risorse finanziarie per realizzare le sue proposte. Ogni Paese pensa prima di tutto a sé stesso, a cominciare dalla Germania che mobilita 200 miliardi di euro in aiuti alle proprie imprese, con il risultato di frantumare il mercato unico. Come ha scritto Judy Dempsey su «Carnegie Europe», le predisposizioni nazionaliste costano caro, in quanto dividono l'Ue. Essa avrebbe invece bisogno di una capacità fiscale, indipendente dai trasferimenti finanziari nazionali, con cui promuovere la produzione di beni pubblici europei, a partire dall'innovazione e la difesa (come argomentato da Marco Buti e Marcello Messori sul Sole 24 Ore del 28 dicembre). Anche qui, occorre riformare l'ordine europeo sovranazionale, non già dare per scontato la sua involuzione. Il ritorno alla logica dei nazionalismi non conviene a nessuno.

In conclusione, la guerra di Putin ha accelerato processi di cambiamento che erano già in corso. La deglobalizzazione, nel mondo, e la rinazionalizzazione, in Europa, non costituiscono però un esito inevitabile, a condizione che le democrazie sappiano usare la loro intelligenza per impedirlo.

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