Il salvataggio dei migranti e gli obblighi degli Stati, un po’ di luce sulle norme
In occasione delle risorgenti polemiche tra i governi italiano e francese, sono state fatte affermazioni molto imprecise circa gli obblighi degli Stati coinvolti, a vario titolo, nelle operazioni di soccorso ai migranti. Sono necessari alcuni chiarimenti.
di Stefano Zunarelli
4' di lettura
In occasione delle risorgenti polemiche tra i governi italiano e francese, sono state fatte affermazioni molto imprecise circa gli obblighi degli Stati coinvolti, a vario titolo, nelle operazioni di soccorso ai migranti. Sono necessari alcuni chiarimenti.
Il salvataggio di persone in pericolo è un obbligo per il comandante della nave. Questo principio tradizionale del diritto marittimo è sancito da varie convenzioni internazionali: Solas (del 1914); Sar (del 1979); Unclos (del 1982) e Salvage (del 1989). Un emendamento alla Solas ed alla Sar del 2004 precisa che lo Stato responsabile della zona di ricerca e salvataggio in cui viene prestata assistenza assume la responsabilità di vigilare affinché le persone soccorse siano sbarcate dalla nave che li ha raccolti e condotte in luogo sicuro («place of safety»).
I problemi sorgono quando, come è avvenuto nel caso delle navi delle Ong di cui si discute in questi giorni, le autorità dello stato competente per la zona Sar in cui è avvenuto il salvataggio (Libia e Malta) non indicano un “luogo sicuro” in cui la nave possa sbarcare i migranti soccorsi.
La Convenzione non dice esplicitamente come debba comportarsi il comandante della nave in questo caso. Qualcuno ha affermato che l’obbligo incombe sullo Stato del porto più vicino, oppure che il comandante della nave è libero di indirizzarsi verso il “porto sicuro” che ritiene più agevole da raggiungere.
A ben vedere, così non è.
È lo stesso emendamento alla Solas e alla Sar del 2004, in primo luogo, a rendere evidente che i governi che in questo caso devono attivarsi sono più di uno. Le norme fanno riferimento, infatti agli «Stati interessati» (plurale), i quali devono coordinarsi «affinché lo sbarco in questione abbia luogo nel più breve tempo ragionevolmente possibile, (…) tenuto conto della situazione particolare». Si tratta, quindi, di stabilire quali siano, al di là dello Stato competente per la zona Sar rimasto inattivo, gli altri Stati che sono tenuti a cooperare per identificare un luogo sicuro per lo sbarco dei migranti salvati.
Tra di essi vi sono gli stati le cui coste (o le cui zone Sar) siano contigue o prossime a quelle dello Stato rimasto inattivo. Ciò trova riscontro nell’art. 98 della Unclos, in cui si stabilisce che «ogni Stato costiero promuove la costituzione e il funzionamento permanente di un servizio adeguato ed efficace di ricerca e soccorso per tutelare la sicurezza marittima e, quando le circostanze lo richiedono, collabora a questo fine con gli Stati adiacenti».
Ugualmente, l’obbligo di cooperazione si estende allo Stato della bandiera. In base alle convenzioni Solas, Sar e Unclos lo Stato della bandiera è, infatti tenuto a porre il comandante in condizione di realizzare l’operazione di soccorso, la quale, come è unanimemente riconosciuto, comprende anche lo sbarco delle persone salvate in un luogo sicuro. Lo Stato della bandiera non può, quindi, affermarsi estraneo all’obbligo di individuare tale luogo sicuro.
A tali soggetti dovrebbe aggiungersi anche lo Stato ove ha sede la Ong che ha noleggiato la nave e in tale veste dà istruzioni al comandante per l’effettuazione dell’attività di soccorso (nella terminologia inglese tale soggetto è efficacemente definito come il «disponent owner» della nave).
Ciò induce a ritenere che anche questo Stato, laddove sia parte delle convenzioni Solas o Sar, debba essere qualificato come «Stato interessato» e quindi tenuto a cooperare per l’individuazione del luogo sicuro.
Nessun altro soggetto, sulla base della normativa in vigore, è tenuto ad attivarsi per i migranti oggi sulle navi delle Ong? Non proprio: anche l’Unione europea, contrariamente a quanto fatto finora, non può dichiararsi disinteressata alla vicenda.
I Regolamenti n. 2016/399 e n. 2016/1624 (di cui viene da più parti richiesta la revisione) già nel testo attuale contengono molteplici riferimenti alle «frontiere marittime» come «frontiere esterne» dell’Ue, alla «gestione europea integrata delle frontiere, fondamentale per migliorare la gestione della migrazione», alla istituzione di «una guardia di frontiera e costiera europea», al principio del «non respingimento» degli immigrati che aspirino alla veste di rifugiati.
Si afferma, poi, esplicitamente, che «conformemente al diritto dell’Unione e ai detti strumenti (Convenzioni Unclos, Solas e Sar), l’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera dovrebbe assistere gli Stati membri nello svolgimento di operazioni di ricerca e soccorso al fine di proteggere e salvare vite, ogniqualvolta e ovunque ciò sia richiesto».
Ove non si intenda che tali parole rimangano solo vane enunciazioni prive di effettivo contenuto, occorre che anche l’Unione europea partecipi fattivamente, attivando la collaborazione di tutti gli Stati membri e rendendo disponibili le risorse economiche necessarie, alle attività volte alla concreta identificazione di un luogo sicuro di destino per i migranti in procinto di sbarcare. Anche papa Francesco nelle scorse settimane ha dichiarato che «la vita va salvata sempre, ma l’Unione europea non può lasciare a Cipro, Grecia, Italia e Spagna la responsabilità di tutti i migranti che arrivano sulle spiagge». Un’attenta lettura della normativa internazionale ed europea rende evidente che le parole del pontefice hanno una solida base giuridica.
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