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Il sogno di Zolaykha Sherzad: far conoscere la moda afghana

Nel 2005 la creativa ha fondato Zarif Design, marchio di abbigliamento fatto a mano in Afghanistan, in piccoli laboratori dove le donne realizzano capi secondo la ricchissima tradizione tessile del Paese

di Giulia Crivelli

(foto: Lorenzo Tugnoli)

4' di lettura

Basterebbe rileggere Il grande gioco di Peter Hopkirk (Adelphi) – o almeno sfogliare parte delle sue oltre 600 pagine – per capire l’importanza dell’Asia centrale nella geopolitica, ma anche nella cultura, globale. Un saggio del quale Umberto Eco scriveva: «In queste affascinanti “mille e una notte” della diplomazia imperialista, il lettore troverà l’antefatto di molti avvenimenti degli scorsi anni in Afghanistan e in Iran». Oggi di questi due grandi Paesi parliamo purtroppo in modo quasi sempre superficiale, sull’onda della cronaca di guerra. L’Afghanistan, in particolare dopo l’abbandono, a Ferragosto 2021, da parte di americani e occidentali, è di fatto scomparso dai media; di Iran si parla un po’ di più, vista quella che per molti potrebbe essere una rivoluzione. Ma pure in questo caso gran parte dei discorsi sono superficiali, sradicati dalla cultura locale.

C’è un modo – affatto superficiale – per capire o almeno entrare in contatto con la cultura afghana e, ancora più importante, con la condizione femminile in quel Paese. Ed è la storia di Zolaykha Sherzad, che nel 2005 ha fondato Zarif Design, marchio di abbigliamento fatto a mano in Afghanistan, grazie a piccoli laboratori dove donne giovani e meno giovani tagliano, cuciono e soprattutto ricamano, seguendo la ricchissima tradizione tessile del Paese. Della straordinaria bellezza dei capi Zarif Design si sono accorti a Parigi: fino al 6 febbraio il Musée national des arts asiatiques-Guimet di place d’Iéna (16° arrondissement) ospita le creazioni di Zolaykha Sherzad all’interno della mostra Sur le fil. Création textile des femmes afghanes.

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«La mostra sta avendo un grande successo di pubblico ed è un successo che dedico alle donne afghane che lavorano per Zarif Design, soprattutto a Kabul, la mia città natale – racconta Zolaykha da New York, dove vive dal 1994 e dove ciclicamente allestisce pop up con i capi Zarif –. Nel contesto attuale, è importante celebrare la resilienza dell’artigianalità e delle donne: la tradizione culturale deve vivere attraverso atti semplici e concreti, di tutti i giorni. Deve continuare a essere ispirazione e fonte di gioia oggi e in futuro. La creatività diventa un atto di resilienza culturale in momenti di terrore e guerra e la bellezza è un antidoto all’oscurità che avvolge l’Afghanistan».

Zolaykha è appena rientrata da un viaggio in Europa che l’ha portata a Milano, oltre che a Parigi, perché grazie a una rete globale di sostenitori e conoscitori del marchio, una selezione di capi Zarif Design è stata ospitata nella boutique di Lucia Paoletti di Follina. «Attraverso ago e filo le donne afghane raccontano la loro storia e quella della comunità in cui vivono e chi acquista un capo è come se si sentisse raccontare questa storia – spiega la fondatrice –. Da troppi anni si associa l’Afghanistan a povertà, distruzione e guerra. Il mio Paese deve tornare a essere parte della comunità internazionale e avere un suo ruolo negli scambi commerciali, nell’arte, nella cultura e nello sport. Anche per questo ho chiamato il marchio Zarif, che in lingua dari significa raffinato e prezioso. A partire dall’invasione russa del 1979, moltissime persone hanno lasciato il Paese, portando con sé ogni tipo di competenze: quelle che restano sono più preziose che mai e nel mio piccolo desidero proteggerle».

Sembra quasi incredibile sentire la speranza che anima Zolaykha, che ha vissuto in prima persona gli stravolgimenti dell’Afghanistan: fuggita con la famiglia dal Paese a 11 anni, trovò asilo politico in Svizzera, dove studiò architettura, per poi trasferirsi negli Stati Uniti. Dall’agosto 2021 è diventato (ancora) più difficile tenere aperto il workshop di Kabul e far uscire dal Paese i manufatti, ma Zolaykha non si arrende. «Ho grandi sostenitori in Europa, anche nel mondo della moda, e a New York. Dopo uno stop quasi totale con il ritorno al potere dei talebani, abbiamo lentamente ripreso le attività e riusciamo a creare 60 capi al mese, tutti pezzi unici e fatti con tessuti e filati afghani».

I cappotti sono il capo più distintivo di Zarif: fatti in seta, cotone o lana sono perfetti per la tendenza genderless (unisex non si usa più) che attraversa il mondo della moda. «Ci vogliono da tre a cinque giorni per creare un cappotto, che viene tagliato a mano, foderato artigianalmente e poi ricamato. Adesso è diventato quasi impossibile far arrivare al workshop tessuti dall’estero e sono contenta, anni fa, di aver scelto di usare solo tessuti locali, migliorandoli però, rendendoli più morbidi e adatti a essere lavati con metodi occidentali – sottolinea Zolaykha –. Disegniamo anche i bottoni, che sono un altro segno distintivo di Zarif».

La mostra di Parigi ha un allestimento molto particolare: la prima cosa in cui si imbattono i visitatori è una scala avvolta da otto metri di tessuto blu, che sembra quasi proteggere – o nascondere – i gradini. Nessuna delle due, secondo il racconto fatto al New York Times dal curatore della mostra, Nicolas Engel: «È un’installazione per evocare la libertà di volare e il colore non è casuale, perché i burqa che si vedono ovunque in Afghanistan sono tutti fatti di tessuto blu».

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