«Il teatro e gli animali salvano la vita alle persone»
Parla Luc Besson il regista di «Dogman», una fiaba noir ora nelle sale, che racconta la storia di un Robin Hood moderno aiutato da un gruppo di cani
di Cristina Battocletti
I punti chiave
- La storia si è ispirata a tre eventi di cronaca
- Da piccolo Luc Besson ha avuto un legame forte con un cane di nome Socrate
- Il regista ha lavorato con un gruppo di 80 cani
4' di lettura
Luc Besson torna alle origini con un pellicola che ricorda quelle che lo avevano fatto amare dal grande pubblico (Le grand bleu, Nikita e Leon) e regala ai suoi numerosi fan Dogman nelle sale dal 12 ottobre. Il film è incentrato sulla figura di un giustiziere simil jocker, costretto sulla sedia a rotelle da un padre folle e violento. Il film metà thriller metà favola nera, deve la sua bellezza anche all’interpretazione di Caleb Landry Jones, nei panni di Douglas, emarginato paraplegico che vive in simbiosi con un branco di cani, unici esseri viventi con cui si è trovato a vivere, da quando il padre lo ha rinchiuso da ragazzino in una gabbia con loro.
Il Sole 24 Ore ha incontrato Luc Besson dopo la buona accoglienza del film da parte di pubblico e critica a Venezia, dove è passato in concorso senza conquistare quella che sarebbe stata la meritata Coppa Volpi per Landry Jones.
Il film prende ispirazione da fatti di cronaca.
«Ho mescolato tre storie differenti, realmente accadute che hanno a che fare con il rapporto forzato tra un bambino e un gruppo di animali. L’inizio ripercorre una vicenda successa in Francia a un bambino di quattro anni, relegato dalla famiglia a vivere con i maiali, fino al momento della liberazione da parte dei poliziotti. Ci sono state poi due altre vicende, che mi hanno ispirato, di convivenza da parte di un bambino con un gruppo di cani in America e in Romania. Quest’ultima riguardava una bambina di sei anni, che al momento del ritrovamento camminava a quattro zampe ed era in grado solo di abbaiare e ululare. Ho visto un video in cui dopo tre anni la stessa bambina aveva recuperato la posizione eretta e poteva parlare. Le sue reazioni fisiche erano però ancora quelle di un cucciolo di animale: ansimava come facevano i cani. Quando le hanno chiesto: “Cosa desideri più di ogni altra cosa?”, lei ha risposto: “Vedere i miei genitori perché mi risulta che non siano morti”. Mi sono chiesto: come si può sopravvivere a un’esperienza del genere? Pensavo che la mia fosse un’infanzia difficile, ma alla fine mi sono convinto che non lo era poi così tanto. Che cosa si può diventare dopo un’esperienza del genere? Madre Teresa di Calcutta, un terrorista o un killer? Quando guardi il cielo cosa puoi chiedere: perché me? Dove ho sbagliato? Dove devo andare?»
Lei ha consuetudine e vicinanza con gli animali?
«Sia io che Caleb abbiamo avuto un rapporto stretto con due cani quando eravamo piccoli: avevamo bisogno della loro compagnia perché abbiamo vissuto infanzie molto solitarie. Il mio si chiama Socrate. Dormivamo, mangiavamo, facevamo tutto assieme».
Di cani sul set ce ne sono tanti. È stato difficile lavorare con loro?
«Per nulla, meglio forse che con gli umani». Ride. «Avevamo tre grandi star che arrivavano dall’America con il proprio istruttore privato. Attorno ruotava un gruppo di circa 80 cani ed era complicato amalgamarli.Sul set c’è stato solo un litigio, è durato un secondo e gli istruttori sono intervenuti subito. Ma negli ultimi due mesi il gruppo era molto in sintonia. Era curioso vedere come le star li snobbassero gli altri. . Quando un cane faceva qualcosa di inaspettato la star reagiva piccata, come a dire “come osi disturbarmi?”. Quali erano? Mickey, Polly, Molly...».
Il suo protagonista è in sedie a rotelle e trova una via di uscita nel teatro...
«La fortuna di Douglas è stata quella di trovare un’insegnante che gli abbia fatto capire la bellezza del teatro. Quando reciti puoi essere un fiore, un principe o un accattone. Questa giovane ragazza gli ha cambiato la vita. Ha trasformato la rabbia in opportunità attraverso lo specchio della recitazione. Alcuni cercano di dimenticare il mondo e si affogano nell’alcol o si drogano. Io abbandono tutti scrivendo. Immaginate chi è su una sedia a rotelle. Come può cercare un modo di apprezzare il mondo? Il teatro ti dà l’opportunità di dimenticare le proprie sventure ed essere quello che si vuole, da Edith Piaf a Shakespeare».
Perché l’ambientazione americana?
«L’unico posto che per me poteva ospitare una storia così estrema era l’America, con le sue comunità rurali e le chiese incombenti in cui spesso si annida la pazzia. Il titolo Dogman è anche un’alliterazione della parola God, dio in inglese. Godman è l’uomo di dio».
Il titolo è uguale a quello di un film di Matteo Garrone...
Ho chiamato Matteo al telefono e gli ho chiesto di poter utilizzare lo stesso titolo e lui ha acconsentito con grande gentilezza. E così abbiamo avuto un Dogman italiano in concorso a Cannes e un Dogman francese in gara a Venezia. Siamo stati in competizione entrambi alla Mostra quest’anno. Quando lo abbiamo scoperto ci siamo congratulati l’uno con l’altro e ci siamo mandati le rispettive locandine dei film. Matteo è un regista meraviglioso».
Douglas si trasforma da grande in una specie di Robin Hood. Il film in qualche modo sembra sottenda una critica al capitalismo...
«Basta prendere atto che nelle mani di poche centinaia di persone si concentra la maggior parte delle ricchezze del mondo. Siamo d’accordo con questo modo di vivere? Possiamo essere di destra o di sinistra, possiamo essere religiosi o meno, ma è davvero questa la direzione che vogliamo prendere, lasciando tre miliardi di persone a morire di fame? Non sto giudicando nessuno. Dico solo che secondo me andiamo a schiantarci contro un muro. Ogni volta che è in corso un cambiamento dobbiamo far scoppiare una guerra. È una cosa che mi fa disperare. Siamo così intelligenti e sappiamo esattamente come andrà a finire».
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