Il tramonto delle ideologie e la mancanza di visione
È trascendere occasionalismo ed empirismo, prender partito sulle questioni ultime e decisive
di Natalino Irti
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Il tramonto fu salutato a festa con impazienza liberatrice. Erano cadute le ideologie, dominanti il secolo ventesimo; e, negli anni del dopoguerra, rese aspre dall’urto dei partiti politici
Il tramonto fu salutato a festa con impazienza liberatrice. Erano cadute le ideologie, dominanti il secolo ventesimo; e, negli anni del dopoguerra, rese aspre dall’urto dei partiti politici. Alba di un nuovo giorno; respiro più largo e libero; scioltezza nel pensare e nell’agire. Con ignaro esercizio di marxismo teorico, le ideologie furono respinte e seppellite come “falsa coscienza”, ingannevoli vesti di interessi egemonici.
Ma grande fu la sorpresa e amaro il disinganno. Le ideologie, nel loro declinare, trascinarono ogni cultura politica, ogni serio pensiero intorno al domani collettivo. E il luogo ne fu preso da empirismo e occasionalismo: dove per l’uno s’intende l’assenza di un disegno, di una visione che tracci il cammino dal passato verso il futuro; e per l’altra, un rispondere alle circostanze dell’ora, un disperdersi nella minuta quotidianità. Né può valere in difesa o spiegazione storica, la esibita “concretezza” delle scelte, poiché il concreto, la solitaria particolarità del decidere, acquista senso soltanto nel quadro di un principio o idea direttiva. È, codesto, un sentirsi fragili, che talvolta chiede ausilio a vecchi miti o a solenni schemi oratorî (appello all’Europa o alla Carta costituzionale o al sentimento di nazionalità, e così seguitando). O rispolvera, e tira a lucido, le formulette geometriche di centro, destra, sinistra.
Espedienti o stampelle argomentative, utilizzate per coprire il vuoto o la debolezza di cultura politica. La quale si vede ridotta a programmi, assai spesso improvvisati per l’urgere di consultazioni elettorali, e composti di una irrelata molteplicità di temi, raccolti fra desiderî attese risentimenti di massa.
Ma cultura non sono, privi come appaiono di radici storiche e di sguardi penetranti nel futuro: di un conservare e progredire, legati insieme, e l’uno appoggiato sull’altro. Cultura non è precettistica o prontuario di soluzioni su singoli problemi, ma un’idea complessiva e unitaria di svolgimento nazionale. Processo che si fa nel tempo, dove idee e fatti s’intrecciano, e si spiegano vicendevolmente; e così ne nasce una linea insieme di continuità e di sviluppo attraverso le generazioni, e un sentirsi dentro un alveo comune. Storia di una nazione è la cultura politica, la quale non nasce soltanto per pagine di filosofi o scrittori di cose sociali, ma per una connessione di carattere interpretativo con l’intero passato.
Quelle ideologie, di cui fu salutato il tramonto, custodivano anche robustezza di orientamenti culturali, e si diffondevano in scuole, e educavano giovani all’impegno politico. Non si vuole di certo rianimarle, e resuscitarle dai loro sarcofaghi, ma trarne lezione di serietà e di coscienza storica. Rimane, per dir così, un lascito ereditario, meritevole di esser raccolto, e reso conforme ai tempi nuovi. Giacché – come insegnava un nostro filosofo – «una classe dirigente degna deve essere una classe sapiente»: dove sapienza non indica una qualche erudizione o specialità di dottrina, ma la capacità di raccogliere e tener vive la tradizione del singolo popolo e le esperienze del passato. I grandi ideali - di eguaglianza e libertà liberatrice, di società in cui sia dato a ciascuno di esprimere la pienezza delle proprie capacità, di scuole severe e rigorose, di onestà personale e di moralità collettiva - ; questi, ed altri ideali e miti e sogni, possono farsi cultura, riannodando i fili del passato e spingendosi verso il domani con animosa fiducia. Farsi cultura è trascendere empirismo e occasionalismo, prender partito sulle questioni ultime e decisive, non isterilirsi nella comoda taccia di conservatori e progressisti. Comoda, eppure incapace di dare risposta alle domande che sovrastano tutte le altre, e riemergono inappagate nei bolsi programmi dell’ultima ora.
Il “che cosa fare” non si elabora in officine tecniche o in segreterie di partiti politici, ma sorge e si definisce in una visione d’insieme, nella concreta e determinata storicità del Paese. Qui, nel ricostruirla e interpretarla, si misura il talento politico e la legittima attesa del consenso
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