SBAGLIANDO SI IMPARA

Il valore talvolta dimenticato del performance management in azienda

Un meccanismo del tutto oggettivo e imparziale per stabilire meriti e attribuire riconoscimenti calibrati è tecnicamente impossibile da realizzare

di Gianluca Rizzi *

(EPA)

4' di lettura

Che si tratti di imparare una lingua straniera, rimettersi in forma, leggere un libro, guardare un film, scegliere un albergo o un ristorante, il meccanismo di coinvolgimento e ingaggio dell’utente consiste nel portarlo dentro ad un gioco fatto di punti da accumulare, premi da vincere, livelli da sbloccare, status da acquisire, classifiche in cui entrare. Nella mia personale esperienza su questi fronti, la sensazione è che il meccanismo sia di fatto sempre lo stesso. E va bene nella misura in cui l’attenzione delle persone (gli utenti di cui sopra) rappresenta una risorsa sempre più scarsa e diventa pertanto necessario fare leva su un istinto profondo dell’essere umano legato alla competizione e alla sfida con se stesso e con gli altri. E anche al desiderio di ottenere una gratificazione a fronte delle proprie azioni.

Ecco, quali potrebbero essere gli effetti collaterali di una spinta esasperata su questo tipo di meccanismo? Potrebbe sembra l’incipit di una riflessione sull’abbruttimento da smartphone (deja vu?) e invece il focus è su uno dei grandi classici delle organizzazioni aziendali: il performance management. Per i non addetti ai lavori, il performance management in azienda rappresenta quel processo di valutazione delle performance passate (qualitative e quantitative) delle persone e individuazione degli obiettivi per il futuro.

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Gli obiettivi di fondo del processo sono almeno tre:
1) Consentire al singolo individuo di avere sempre una direzione chiara e un riscontro sul proprio operato.
2) Dare la possibilità ai people manager di orientare l’azione e lo sviluppo delle persone del proprio team.
3) Mettere l’organizzazione nelle condizioni di allineare e orientare lo sforzo dei dipendenti nelle direzioni auspicate, intervenendo laddove necessario per premiare o correggere.

I protagonisti normalmente sono “capo” e collaboratore e ci si può avvalere di qualche strumento (oramai sempre più digitali) per accompagnare questo processo che entra nel vivo solitamente nel primo trimestre dell’anno solare.

Visto sotto un’altra prospettiva, meno formale e organizzativa e più squisitamente umana, nel performance management si compie quell’atto fondamentale di riscontro su quanto si è stati all’altezza o meno degli obiettivi e i due attori sono per l’appunto una persona che è investita dell’autorità (ma non necessariamente ha saputo ammantarsi anche di autorevolezza) di esprimere quel verdetto e un’altra persona che quel verdetto in un certo qual senso lo subisce.

Ci ricorda qualcosa? Beh, in questo quadro che ammetto di avere un po’ drammatizzato, ci ritroviamo la memoria di quanto, ad esempio, ci accadeva a scuola nel momento della famigerata pagella. A dire il vero, l’esasperazione del mio tono è coerente con una realtà nella quale questo processo aziendale è sempre vissuto come particolarmente sensibile e delicato, e quindi da gestire con grande attenzione.

E questo per almeno tre motivi:

1) Il carico di emotività con cui ci si avvicina al momento della valutazione. È comprensibile che le persone, dopo un anno di lavoro dedicato al tentativo di raggiungere brillantemente gli obiettivi condivisi e consapevoli della possibilità di un premio (bonus, promozioni, incentivi, provvigioni, ecc) legato ai risultati effettivamente conseguiti, si approccino al “verdetto” (perché come tale viene vissuto in fin dei conti) con delle aspettative, un certo grado di ansia e con il fortissimo desiderio di sentirsi riconosciuti e adeguatamente ricompensati, desiderio che si mescola al timore che il proprio responsabile possa avere una percezione diversa o distorta.

2) Lo strumento, le regole e i criteri alla base del performance management. Mettere in piedi un meccanismo che riesca in maniera del tutto oggettiva e imparziale a stabilire i meriti effettivi delle persone attribuendo di conseguenza i riconoscimenti in maniera perfettamente calibrata è tecnicamente impossibile. In questo caso lo è anche solo per la natura aleatoria della valutazione delle performance che di per sé non possono essere oggettivamente quantificabili. In altri termini il performance management rappresenta un processo che per definizione e sua stessa natura è un second best, ovvero una soluzione subottimale. Questo aspetto può rappresentare alternativamente un alibi oppure alimentare il disingaggio da parte delle persone (“se loro non sono in grado di valutarmi in modo oggettivo, che senso ha impegnarsi?”).

3) L'efficacia nella restituzione del feedback da parte dei people manager. Ho usato volutamente i termini “pagella” e “verdetto” per rimarcare con forza come l’attenzione del collaboratore si concentri sull’indicatore sintetico; è cruciale però che il capo sappia argomentare, spiegare, far comprendere e quindi di fatto aprire un dialogo e un confronto sulla valutazione. Perché questo confronto sia aperto, schietto e generativo occorre fiducia reciproca, autorevolezza da parte del responsabile, disponibilità al confronto e alla crescita. In altri termini, la restituzione del feedback rappresenta davvero una forma alta di espressione della saggezza manageriale nella gestione del binomio persone-performance.

Ora io però l'ho presa larghissima in apertura e lì vorrei tornare. Fermo restando il fatto che certamente il performance management serve anche a monitorare e far evolvere le performance dei dipendenti, qual è l’altra ragione profonda e troppo spesso sottovalutata di questo importante processo aziendale? Far crescere personalmente e professionalmente le persone.

Se la spinta della società civile è tutta nella direzione del “gaming” (punti, status, livelli, premi), è comprensibile che le persone in azienda finiscano per propendere per questo tipo di approccio piuttosto che quello dello sviluppo personale, nell’accezione più ampia e nobile di questa espressione. Con conseguenze nefaste per sé e per il proprio umore, per il team a cui si appartiene e per l’azienda stessa che dovrà governare aspettative irrealistiche di carriera e la frustrazione che deriva dall’impossibilità della loro realizzazione.

* Partner di Newton Spa


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