Il vertical farming abbatte il consumo di suolo e di risorse naturali
La coltivazione di ortaggi indoor può essere una soluzione per le città. Ma servono capitali e tanta ricerca con agronomi, softwaristi, ingegneri
di Alessia Maccaferri
I punti chiave
5' di lettura
Grandi laboratori automatizzati, disposti su più piani, per coltivare ortaggi e frutta e soddisfare i bisogni alimentari, soprattutto nelle grandi città. È il vertical farming, una tecnologia diffusa da qualche anno, che consente di ridurre il consumo di suolo e di risorse naturali.
Anche in Italia iniziano a crescere realtà significative: in queste settimane è pronta al lancio commerciale la produzione di Planet Farms, con una struttura di 9mila metri quadrati a Cavenago alle porte di Milano, mentre Agricola Moderna distribuisce da tempo i suoi prodotti attraverso i canali di Carrefour e di Cortilia.
Meno consumo di suolo, acqua e pesticidi
Il vertical farming consente un minor consumo di risorse naturali: per esempio per produrre un chilo di lattuga in campo aperto, secondo Plant Labs, sono necessari 250 litri di acqua, che scendono a 20 in serra e un litro in vertical farm. Allo stesso modo per quanto riguarda il suolo, in campo aperto, in un metro quadrato si producono 3,9 chili di lattuga all’anno, che salgono a 41 in serra e tra gli 80 e i 120 in vertical farm.
Inoltre l’ambiente controllato permette di ridurre o annullare l’utilizzo dei pesticidi e la vicinanza delle vertical farm ai consumatori taglia le emissioni dovute ai trasporti. Inoltre il sistema è efficiente perché insensibile alla meteo e a eventi avversi che sappiamo essere sempre più frequenti a causa del cambiamento climatico.
È la tecnologia che salverà una Terra sempre più fragile?
Per PlantLabs, la vertical farm è una soluzione molto buona ma va integrata con le altre. Non solo. Restano irrisolti alcuni aspetti come il consumo di energia elettrica che sappiamo essere in gran parte ancora dipendente da fonti fossili. Anche su questo la ricerca sta facendo passi avanti.
«Negli ultimi 6 mesi abbiamo studiato una lampada per vertical farming, che consente di passare da 1,8 micromoli/watt attuali a quasi 3 micromoli/watt di efficienza energetica con abbattimento del 40% dei consumi rispetto alla precedente tecnologia» spiega Mattia Accorsi, senior biologist in C-Led, azienda imolese specializzata in lampade per idroponica e vertical farming.
«Il problema delle lampade da coltivazione è che comportano un consumo diretto di energia elettrica per apportare luce ma anche indiretto per la dissipazione del calore emesso. Questa evoluzione della tecnologia Led che abbiamo introdotto permetterà quindi nel suo complesso di abbattere circa del 50% l’energia. Potremmo essere a una svolta in termini sia di sostenibilità sia di abbattimento dei costi energetici per gli imprenditori» aggiunge Accorsi, intervenuto alla preview di NovelFarm, mostra-convegno dedicata alle colture fuori suolo (9-10 giugno, Pordenone Fiere).
Dal punto di vista alimentare, c’è l’aspettativa che il vertical farming possa essere una via per sfamare il mondo. «La questione è importante e complessa - spiega Michele Butturini, ricercatore nel dipartimento di Orticoltura e fisiologia dei prodotti alla Wageningen University - Considerando che la quota di popolazione mondiale che vive nelle città ha superato quella che abita le zone agricole, allora il vertical farming può essere una buona fonte di approvvigionamento per le metropoli. Lo abbiamo visto per esempio con questa pandemia, a New York c’è stata un’esplosione di domanda per l’indoor farming. Adesso le società sono ancora piccole, quindi il contributo è stato limitato. Ma nel momento in cui dovesse succedere che la logistica globale diventi molto fragile, si potrebbe avere con il vertical farming la possibilità di accedere alla produzione in modo rapido. Un maggiore contributo in volumi potrebbe arrivare in generale dalle coltivazioni in ambiente controllato, le serre ad alta e media tecnologia. Data l’instabilità climatica e politica che dovremo affrontare nei prossimi decenni, l’ambiente controllato permette di avere una certa garanzia sulle produzione».
Ricerca avanzata
«Da fine 2014 abbiamo investito 20 milioni di euro nella sola ricerca. Abbiamo curato tutta la filiera, dal seme al prodotto confezionato, che sarà tracciata con blockchain. La struttura è completamente automatizzata e progettata da noi su misura. Per le nostre esigenze non esisteva una soluzione pronta chiavi in mano. Noi abbiamo ingegneri, tecnologi e agronomi, esperti di Iot e Ia» spiega Luca Travaglini, cofounder e co-ceo di Planet Farms, assieme a Daniele Benatoff.
La società, fondata nel 2018, ha costruito a Cavenago, alle porte di Milano, una struttura di oltre 9mila metri quadrati in cui si produrranno da maggio 2021 tra 40mila e i 60mila confezioni al giorno di insalata ed erbe aromatiche. Gli ortaggi saranno venduti alla grande distribuzione lombarda a prezzi paragonabili al prodotto biologico. In programma per il futuro prossimo c'è la costruzione di altri cinque stabilimenti in diversi Paesi Europei, con investimenti complessivi sugli impianti produttivi per altri 30 milioni.
Con il sistema di coltivazione progettato da Planet Farms è possibile un risparmio del 95% dell'acqua rispetto alle coltivazioni tradizionali e del 90% di suolo. La terra è sostituita da substrati organici studiati ad hoc per ogni varietà di pianta, mentre l'aria è filtrata in modo da creare un ambiente protetto.
«Noi abbiamo fatto una ricerca mirata alla massima qualità possibile con screening su migliaia di semi naturali per selezionarne alcuni. In particolare, noi su questo facciamo l’opposto dell’agricoltura tradizionale: quest’ultima cerca il super seme, noi il seme di una volta, che in campo aperto sarebbero troppo deboli. In particolare cerchiamo varietà dove l’espressione del gusto regna sovrana. Inoltre, grazie alla ricerca, i valori nutrizionali sono a livello del super food» aggiunge Travaglini, che puntualizza: «Noi non siamo in competizione o contro l’agricoltura tradizionale ma siamo complementari. Oggi abbiamo delle coltura intensive a grosso impatto ambientale, con problemi sulle falde acquifere e sui terreni. Si possono quindi rigenerare i terreni con regimi rotativi naturali, portando una parte della produzione in strutture come la nostra che sono realmente sostenibili ed efficienti».
Necessari ingenti capitali
Più recente invece lo sviluppo di Agricola Moderna. «Siamo partiti tre anni fa dal laboratorio fino a realizzare l’impianto produttivo di Melzo, 800 metri quadrati di coltivato su otto livelli. Siamo impegnati a migliorare la nostra curva di apprendimento. Il processo è semi-automatizzato» racconta Pierluigi Giuliani, ceo di Agricola Moderna, fondata assieme a Benjamin Franchetti.
La società - 18 dipendenti di cui 12 dedicati alla ricerca - produce 100 chili al giorno di insalata e vende attraverso i canali di Carrefour e di Cortilia. «Stiamo progettando un impianto 15 volte più grande, totalmente automatizzato, sperando di avviare i lavori entro fine anno. Con l’intento di replicarlo sia in Italia sia all’estero» aggiunge Giuliani.
«Dal punto di vista dei capitali non è stato facile per noi all’inizio né lo sarà in futuro. Ci siamo mossi finora con un po’ di bandi, di finanziamenti agevolati e di equity. Ora stiamo cercando decine di milioni di euro e ci stiamo muovendo con dei fondi importanti, sembra ci sia molto interesse».
Gli operatori in Italia sono ancora pochissimi. «Ci vuole tanta ricerca e tempo. Il settore potrebbe essere sostenuto dal punto di vista dell’accesso al capitale: potrebbero esserci agevolazioni, lo stato potrebbe partecipare a queste operazioni, magari ci saranno aiuti da parte delle associazioni di categoria» aggiunge Giuliani. «È un settore molto attrattivo anche per i giovani perché mette assieme l’innovazione con lo scopo di vendere prodotto di alta qualità con impatto ambientale basso».
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