A TEATRO

Il “vostro irriverente silenzio”: Fabrizio Gifuni racconta il j’accuse di Aldo Moro

Lo spettacolo, scritto, diretto ed interpretato dall’attore si basa sul volume filologicamente aggiornato nel 2019 del carteggio dell'allora presidente della Democrazia Cristiana, ucciso dalle Br

di Michele Weiss

Fabrizio Gifuni (credit : Musacchio, Ianniello e Pasqualini)

3' di lettura

A distanza di oltre 40 anni fa ancora male rivivere la vicenda Moro? Dopo che, come dice Fabrizio Gifuni – introducendo la prima milanese di Con il vostro irridente silenzio. Studio sulle lettere dalla prigionia e sul memoriale di Aldo Moro – “sulla vicenda sono stati versati fiumi d'inchiostro e realizzate opere e film importanti”? Per la risposta leggete fino alla fine queste righe.

Negli ultimi anni, Gifuni si è specializzato nella costruzione in veste di factotum (scrittore, interprete e regista) di “oggetti” teatrali irrituali, quasi sempre monologhi ispirati a lembi di vite e opere di grandi scrittori, come Gadda e Pasolini. Non fa eccezione l'ultimo nato, da lui stesso identificato come un “meteorite”, un esperimento teatrale “fantasmatico” da maneggiare con cura.

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Le immagini di questo pezzo sono tratte dallo spettacolo che si è svolto a Roma al Teatro Vascello, dal titolo “Con il vostro irridente silenzio” di Fabrizio Gifuni. Copyright Musacchio, Ianniello e Pasqualini

Con il vostro irridente silenzio. Studio sulle lettere dalla prigionia e sul memoriale di Aldo Moro (da Gifuni scritto, diretto e interpretato e in scena al Teatro Grassi di Milano fino al 17 ottobre, ultima provvisoria tappa di una tournée che sta riscuotendo grande successo), si basa sul volume filologicamente aggiornato nel 2019 del carteggio dell'allora presidente della Democrazia Cristiana, Aldo Moro. Barbaramente assassinato dalle Brigate Rosse dopo 55 giorni di prigionia tra il 17 marzo e il 9 maggio 1978, la sua vicenda tenne col fiato sospeso l'Italia, dolorosamente divisa tra “trattativisti” e intransigenti.

Il titolo dello spettacolo si riferisce al passo urticante di una delle ultime lettere, un vibrante j'accuse nei confronti del partito e della classe politica, rea di averlo abbandonato. Gifuni costruisce uno spettacolo minimale: in scena vediamo solo un tavolo e una sedia che lo accompagnano mentre con una lettura recitata presta corpo e voce al carteggio della prigionia, composto da lettere ai compagni di partito, ai familiari e agli amici, intervallate da densi memoriali politici. La pièce si muove con un ritmo ondivago, crescendo d'intensità man mano che progredisce il soliloquio drammatico. Gifuni varia timbro e registri per cercare di restituire lo stato d'animo di Moro, e per differenziare il tono delle lettere, diversissimo tra quelle dolci e disperate ai famigliari e quelle acute e rabbiose ai politici.

Ma il vero corpo a corpo, l'attore e regista romano lo fa col linguaggio di Moro, che qui assurge al linguaggio di tutta un'epoca, epoca in procinto di andare in pezzi (la Prima Repubblica, che cadrà di lì a breve). Questa lingua, sbugiardata e stigmatizzata dai media e dai compagni di partito, in realtà aveva uno scopo preciso per quanto disperato: salvarsi tramite la parola contro l'irridente silenzio della politica. Attaccare la sua parola per scarsa lucidità e “delirio” aveva come vero obiettivo da parte dei detrattori quello di silenziarla, minandone la dirompenza per la vita della Repubblica. Parola di luce (tedofora) contro silenzio (mortifero). Moro nel carteggio dice effettivamente delle cose molto gravi, indica la pista nera per piazza Fontana (con la compiacenza di parte della DC) e infine, dissociandosi dal partito, afferma che sia il taciturno Andreotti a volerlo liquidare (“Lui è il male”) per eliminare l'ultimo ostacolo sulla via del potere.

Moro a questo carteggio si aggrappa ferocemente perché è l'unica cosa ancora in suo potere oltre ad essere l'ultima speranza. Ed è proprio questa la chiave con cui Gifuni monta lo spettacolo: nella sua totale e atroce solitudine, l'ex presidente DC usa il linguaggio con una lungimiranza e una forza morale inaudite. Questo linguaggio affamato di vita e verità è lo strumento contro un mondo freddo e oscuro che gli ha voltato le spalle. Uno strumento “esorbitante”, quindi, che commuove, spaventa, confonde ma che attrae irresistibilmente chi sa ascoltare perché trabocca di verità e umanità.

Ora sì che possiamo rispondere alla domanda iniziale: la vicenda Moro fa ancora malissimo. Nella prima parte affiora il dubbio che il lavoro sia “inerte” per usare un termine caro all'autore, ma poi Gifuni, straripante nel bene e nel male, fa una mossa di regia arguta costruendo un finale di grande valenza. Che non riveliamo ma ci fa capire, leggendo uno degli ultimi laceranti memoriali, come quell'Italia degli Anni di Piombo non fosse molto diversa da quella odierna: buia, disperata e travolta dall'antipolitica.

«Non vogliamo cambiare mai», grida affranto Moro-Gifuni all'imbrunire, e a noi spettatori sta chiedendo se questa indolenza gattopardesca non sia la “dolce” ed eterna condanna dell'Italietta conformista di ieri, oggi e domani: un Paese amorale e pavido, che scarica su solitarie meteore umane il compito di bere l'amaro calice, non potendo, o volendo, farsi carico della lotta per un avvenire migliore.

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